17/01/2018, 15.57
VATICANO - CILE
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Papa in Cile: unità non è essere tutti uguali, ma è 'diversità riconciliata'

Francesco ha celebrato messa dedicata al “progresso dei popoli” in una regione dove il popolo Mapuche si ritiene ancora oggi vittima di sopraffazioni e discriminazioni che ne hanno ridotto il numero a poche decine di migliaia di persone. “L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno” nasce dal riconoscimento e dalla solidarietà. “Dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori o inferiori”.

Temuco (AsiaNews) – Costruire l’unità nel dialogo, una unità che non è uniformità, perché quella che chiese Gesù è “la ricchezza che ogni popolo può offrire”, “è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie”, e che rifiuta “la logica di credere che ci siano culture superiori o inferiori”. Tamburi, corni e strumenti tradizionali degli indio  accompagnano la messa che papa Francesco ha celebrato stamattina alle 10 (ora locale) a Temuco, 600 chilometri a sud di Santiago del Cile.

Le parole sul senso dell’unità hanno un valore particolare in questa regione nella parte meridionale del Cile, ove il popolo Mapuche – nella sua lingua, «Mari, Mari» (buongiorno), oggi Francesco ha salutato all’inizio della messa – si ritiene ancora oggi vittima di sopraffazioni e discriminazioni che ne hanno ridotto il numero a poche decine di migliaia di persone. E il Papa ha offerto la celebrazione dedicata al “progresso dei popoli” , per “tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare”. Ad ascoltarlo una folla che, secondo gli organizzatori, arriva a 200mila persone.

“Una delle principali tentazioni da affrontare – ha aggiunto - è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri. L’unità domandata e offerta da Gesù riconosce ciò che ogni popolo, ogni cultura è invitata ad apportare a questa terra benedetta. L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori o inferiori”.

“L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo, il che non significa solo «ricevere informazioni sugli altri [...] ma raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi». Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la ‘deforestazione’ della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità”.

“L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi ‘belli’ che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che non diventando concreti finiscono per ‘cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano’. Anche questa è violenza, perché frustra la speranza.

In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce solo maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa la causa più giusta. Per questo diciamo ‘no alla violenza che distrugge’, in nessuna delle sue due forme.

Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, la via della nonviolenza attiva «come stile di una politica di pace». Cerchiamo, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità. Tutti noi che, in una certa misura, siamo gente tratta dalla terra (Gen 2,7), siamo chiamati al buon vivere (Küme Mongen), come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Mongen, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola; rendici artigiani di unità”.

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