06/05/2024, 11.58
ARABIA SAUDITA
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Riyadh media la pace in Medio Oriente ma reprime col carcere il dissenso interno

La condanna di Manahel al-Qatabi per aver invocato la fine della tutela maschile è solo l’ultimo esempio di una lunga serie. Pena capitale ad un uomo per aver denunciato sui social corruzione e violazioni dei diritti umani. Decine di persone dovranno scontare “lunghe” sentenze in prigione.

Riyadh (AsiaNews) - Attiva sul fronte internazionale nella ricerca di “stabilità” in un Medio oriente caratterizzato da guerre e tensioni, all’interno dei propri confini la leadership di Riyadh continua a colpire - e reprimere - quanti si battono per i diritti e le libertà individuali, in particolare le donne. Prova ne è quanto sta avvenendo negli ultimi due anni, in cui la giustizia saudita ha “condannato ed emesso verdetti che prevedono lunghe pene detentive a carico di decine di persone” la cui “colpa” è aver “pubblicato contenuti sui propri profili social”. A denunciare il progressivo giro di vite contro il dissenso - e le voci critiche a difesa delle libertà democratiche - sono gli attivisti di Amnesty International e Alqst, organizzazione pro diritti umani saudita con sede nel Regno Unito, partendo dall’ultimo caso nei giorni scorsi: la condanna a 11 anni di prigione a carico dell’attivista Manahel al-Qtaibi

Gli esperti delle diverse ong parlano di “feroce” campagna di repressione che colpisce anche “la più piccola critica” espressa online nella monarchia del Golfo, che è andata rafforzandosi nell’ultimo periodo di turbolenza nella regione. La magistratura, affermano in una nota congiunta le due organizzazioni, ha “inflitto lunghe pene” nei riguardi di “decine di persone” per i loro “commenti espressi in rete”. Si tratta perlopiù di comuni cittadini finiti nel mirino di una Tribunale penale specializzato, istituito nel 2008 per trattare casi legati al terrorismo e i cui verdetti sono raramente commentati dalle autorità saudite.

Oltre alla vicenda di Manahel, che si batteva per la fine della tutela maschile e le norme sull’abbigliamento ma condannata per - presunti e mai specificati - reati di “terrorismo”, fra i casi recenti vi è quello di Nourah al-Qahtani, arrestata nel luglio 2021 per i post su Twitter (oggi X): madre di cinque figli, la donna deve scontare 45 anni di carcere (la sentenza di primo grado era di sei anni e mezzo, poi aumentata in appello) per critiche al governo e altri messaggi in cui paventava il rischio di arresto per persone coinvolte nelle manifestazioni. Peraltro ogni forma di espressione del dissenso nel regno wahhabita è vietata. 

I giudici l’hanno riconosciuta colpevole di uso del social network “per contestare la religione e la giustizia” di re Salman e di suo figlio e leader de facto del regno, Mohammad bin Salman (Mbs), come recita il testo della sentenza. A questo si è aggiunta una pena accessoria in secondo grado per aver incoraggiato “le attività di coloro che cercano di turbare l’ordine pubblico e destabilizzato [...] lo Stato” mediante la pubblicazione di “tweet falsi e dannosi”.

Appartiene alla minoranza sciita [l’Arabia Saudita è la culla dell’islam sunnita] Salma Al-Chehab, all’epoca 34enne e impegnata in un dottorato nell’università britannica di Leeds quando è stata arrestata nel gennaio 2021 mentre si trovava in vacanza nel suo Paese. Un anno e mezzo più tardi, nell’agosto 2022, i giudici le hanno inflitto 34 anni di prigione per aver “aiutato” gruppi dissidenti a “destabilizzare lo Stato” diffondendo e rilanciando i loro messaggi. Alla madre di due figli, che postava soprattutto informazioni sui diritti delle donne e aveva diverse migliaia di follower, è stato anche vietato di lasciare il Paese per 34 anni dopo aver scontato la pena, poi ridotti a 27.
Mohammad al-Ghamdi, un oppositore che raccontava sui social network la corruzione e le presunte violazioni dei diritti umani, è stato arrestato nel giugno 2022 e poi condannato a morte lo scorso anno. Secondo il fratello Said al-Ghamdi, attivista in esilio, l’accusa si è basata almeno in parte su pubblicazioni che criticavano il governo ed esprimevano sostegno ai “prigionieri di coscienza”, come i leader religiosi Salmane al-Awda e Awad al-Qarni. Lo scorso anno Human Rights Watch ha dichiarato di aver visto un documento del tribunale in cui si affermava che l'insegnante in pensione aveva “preso di mira lo status del re e del principe ereditario”. Inoltre, prosegue il testo, “le sue azioni sono amplificate dal fatto che si sono verificate attraverso una piattaforma mediatica globale, il che richiede una punizione severa”. Nel settembre dello scorso anno lo stesso bin Salman aveva criticato la sentenza, auspicando che l’uomo non fosse giustiziato. 

Nell’affrancare il Paese dalla dipendenza dal petrolio, base della “Vision 2030” bin Salman ha messo mano - seppur con attenzione - all’impianto radicale della fede musulmana e alla vita sociale della nazione. Le riforme introdotte dal 2019 hanno toccato la sfera sociale e i diritti fra cui il via libera per la guida alle donne, l’accesso (controllato) agli stadi e potenziato l’industria dell’intrattenimento e le nuove tecnologie, oltre all’ambito religioso con un progressivo abbandono della “wahhabismo”. Tuttavia, gli arresti di alti funzionari e imprenditori, la repressione di attivisti e voci critiche e la vicenda Khashoggi hanno gettato più di un’ombra sul reale cambiamento cui manca anche un’ultima parola, definitiva, la libertà religiosa.

(Nella foto di Amnesty International l’attivista Manahel al-Otaibi)

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