15/05/2004, 00.00
Iraq
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Ascoltiamo il popolo irakeno

Nel vortice di scontri, torture, decapitazioni, attentati, dichiarazioni elettorali, ci si dimentica dei bisogni del popolo irakeno. Il ricercatore Yahia Said smitizza alcuni preconcetti sui problemi dell'Iraq.

Baghdad (AsiaNews) - Il rancore degli irakeni verso le truppe della coalizione non ha niente a che fare con le foto delle torture: essi sono piuttosto delusi che non vi sia sicurezza nel paese, un anno dopo la caduta di Saddam. E quello che molti media occidentali chiamano "resistenza", per gli abitanti di Baghdad è semplicemente "terrorismo". Perfino Muqtada al Sadr viene considerato "una testa calda" e la maggior parte della gente vorrebbe che se ne andasse via dall'Iraq.

È però vero che gli irakeni amano sempre meno gli americani e simpatizzano verso coloro che li attaccano. Ma è solo perché sono stanchi di tante promesse non mantenute. La speranza degli irakeni non è una rivolta contro le truppe di occupazione, ma trovare una via per appianare le cose: "la gente è davvero stanca della violenza e dell'instabilità".

A sostenerlo è Yahia Said, irakeno, ricercatore della London School of Economy che dopo 23 anni di esilio e di militanza anti-Saddam, è ritornato a Baghdad per lavorare a un progetto sulla Global Governance (governabilità globale) ispirato dalla società civile. Il progetto unisce accademici, politici, attivisti, sindacati, donne, giovani dell'Europa e dell'Iraq. Grazie a  questo gruppo, ad esempio, la nuova costituzione irakena ha dato più spazio alle donne nella politica e nella società e ha rifiutato il riferimento alla sharià.

Le riflessioni di Yahia Said, pubblicate sul sito www.opendemocracy.org , sono frutto di una conversazione del ricercatore con Caspar Henderson, avvenuta il 6 maggio. Ma esse conservano tutta la loro verità.

Le parole di Said gettano luce su molti aspetti del dramma irakeno e svelano spesso un modo miope con cui molti media e politici occidentali guardano ai problemi.

Secondo Said, ad esempio, a diminuire la stima per gli americani ha contribuito più l'assedio di Falluja che le fotografie delle violenze nella prigione di Abu Ghraib: "La gente è furiosa… E molto di questo ha a che fare con Falluja… È stato l'ultimo atto di imprudenza della coalizione, che l'Iraq non può più sopportare. Ed ora l'ira sta esplodendo… Ciò che non si capisce della situazione irakena è quanto la gente sia stanca. La gente in Iraq era pronta a sopportare qualunque cosa per uscire dal regime di Saddam; ora, parte dell'ira contro le truppe della coalizione non è contro l'occupazione in quanto tale, ma perché essa ha fallito nel ridurre la violenza. E se la loro presenza porta a un'escalation della violenza, come molti pensano… perché essi dovrebbero sopportare l'occupazione?"

Proprio per il desiderio di far terminare "il disordine orrendo" in cui è il paese, gli irakeni sono disposti a far partecipare al mantenimento dell'ordine anche membri dell'ex esercito di Saddam.

"Guardando dall'esterno – afferma Said – si sbaglia vedendo le forze di occupazione come l'unico problema. L'enorme problema del terrorismo in Iraq non è pesato bene… Gran parte della violenza è un problema terroristico".

Alla domanda se è possibile distinguere fra "resistenza nazionalista" e "terrorismo", Said risponde: "Chi uccide i civili è chiamato terrorista. Nessuno li definisce 'resistenza'. Nessuno in Iraq chiamerebbe 'resistenti' coloro che hanno messo bombe a Kerbala e Irbil, o a Basra. Forse qualche televisione li chiamerebbe così. Forse Al Jazeera li chiamerebbe 'resistenti'".

Sulla resistenza di Muqtada Al Sadr, Said dice: "Alcuni, perfino fra intellettuali e attivisti, hanno sentimenti positivi verso di lui perché ha messo in luce una posizione nazionalista con cui sono d'accordo….Ma perfino fra costoro si pensa che Al-Sadr sia inaffidabile [lett.: a wild card]. Le sue truppe sono un gruppo indisciplinato di criminali. Egli li ha autorizzati al saccheggio purché diano il 20% - secondo la tradizione sciita – del loro guadagno alla moschea. C'è molta apprensione, e non è considerato maturo. In genere la gente vorrebbe che se ne andasse via".

Alla richiesta di qual è stata la reazione degli irakeni alla pubblicazione delle foto di violenza e torture degli americani e degli inglesi, Said risponde: "La ricezione è stata sorprendentemente di basso profilo. In parte ciò è dovuto al fatto che  circolavano da tempo voci, storie gonfiate e storie vere su abusi, stupri, torture nelle prigioni e sotto la custodia della coalizione. Paragonato a ciò che la gente aveva sentito qui, le immagini sono sembrate perfino tranquille. Non vi è stato nulla di inaspettato. Ma in effetti la gente qui si chiede: perché sono apparse adesso? Gli irakeni hanno sempre il sospetto che ci sia come un disegno segreto per spingere a rendere pubbliche le foto in questo particolare momento".

Ciò che è importante è la"totale sfiducia" della gente verso le truppe e il governo di coalizione: "la gente non crede più a loro".

Caspar Henderson chiede poi se gli irakeni "sono contenti del piano dell'inviato ONU Lakhdar Brahimi" e se la gente avrebbe speranza in una forza internazionale guidata dall'ONU. Said risponde che l'interesse della gente è che "tutto questo finisca presto" e che la supervisione dell'ONU deve servire a mantenere gli americani "dentro le regole".

Said esclude che l'Iraq si stia avviando verso una guerra civile.  Alla gente sembra che "tutto questo parlare di sunniti, sciiti e di quote etniche di potere nel consiglio di governo" sembra solo un tentativo imperialista di dividere e conquistare ed essi "resistono coscientemente a questo". Gli scontri avvenuti a Kirkuk fra arabi e kurdi e a Mossul sono "conflitti locali", dovuti al ritorno di molti profughi, sradicati al tempo di Saddam. A Kirkuk vi sono centinaia di migliaia di kurdi che vogliono tornare alle loro case; e nelle zone sciite vi sono milioni di sciiti fuggiti in Iran che desiderano tornare, ma "parlare di guerra civile è falso". Invece cresce sempre di più l'unità degli irakeni su due punti: "il desiderio che finisca la violenza, e il desiderio che finisca l'occupazione".

Un ultimo punto è sul senso della "resistenza armata": "La mente che sta dietro alla resistenza armata – dice Said – cerca coscientemente di bloccare la ricostruzione. Vi è un enorme danno allo sforzo della ricostruzione. Il rapimento degli stranieri è parte di esso. Circa  800 russi, fondamentali per predisporre le centrali che usano energia importata dalla Russia, hanno lasciato il paese e ora il governo provvisorio sta cercando disperatamente ingegneri irakeni per rimpiazzarli per ridare l'elettricità. Tutti accusano gli americani perché non riparano l'elettricità. Ma è un circolo vizioso. Di chi è la colpa? Della resistenza o degli americani? La cosa più facile è dare la colpa agli americani".

La presenza delle truppe della coalizione non è tutto un fallimento: "Una cosa non apprezzata a sufficienza – dice Said – è lo sforzo della coalizione e degli ingegneri, dottori, poliziotti irakeni nella ricostruzione; quanto hanno fatto per riparare l'elettricità, restaurare l'economia. Tante buone notizie vengono seppellite e dimenticate perché emerge una nuova atrocità, o per quel che essi hanno fatto contro i detenuti. Ma le due cose non sono sullo stesso piano. È una situazione complessa. Non si può dividere nettamente fra buono e cattivo".

 

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