10/08/2020, 10.58
LIBANO
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Beirut, giovani cristiani e musulmani: il filo di speranza

di Pierre Balanian

Migliaia di giovani sono impegnati a ripulire la città da detriti e macerie; aiutano persone anziane a sopravvivere; offrono acqua e cibo pagando con soldi propri o raccolti fra amici e parenti. Anche giovani rifugiati siriani si mettono al lavoro. Un pastore protestante siriano, musulmano convertito al cristianesimo, offre panini e bottigliette d’acqua agli sfollati.

Beirut ( AsiaNews) – La città colpita da una bomba quasi atomica – le esplosioni del 4 agosto erano pari a un decimo della forza della bomba di Hiroshima – è paralizzata e devastata; il lavoro per ridarle un aspetto decente è gigantesco. L’esercito è ovunque, ma si deve occupare di sicurezza, evitare sciacallaggi, proteggere i siti sensibili, garantire il traffico e il passaggio dei mezzi di soccorso. La Protezione civile è impegnata a estrarre corpi da sotto le macerie, accogliere colleghi venuti da tutto il mondo, coordinare i lavori. I politicisono  impegnati in riunioni per trovare un modus vivendi, anzitutto fra di loro, per dare poi una risposta alle condizioni poste dalla comunità internazionale: il presidente francese Emmanuel Macron ne è stato il portavoce ed ambasciatore, spiegando le condizioni a cui il Libano può accedere a nuovi prestiti, togliendo il blocco al Paese.

Intanto, la città è coperta di detriti, vetri, alberi stradicati dalle esplosioni, case senza mura che come un tetro palcoscenico espongono ciò che rimane visibile di una vita interrotta  all’improvviso; balaustre, balconi, muri, palazzi e ponti che rischiano di cadere da un momento all’altro.

Persone anziane e sole, che desiderano pulire le loro case ma non hanno le forze o il coraggio,  non sanno da dove iniziare.  Piangono, pregano, sperano, nascondendo il viso fra le mani per vergogna, dolore, impotenza.

In questo scenario disperato è risorta la vera forza di un popolo, il proprio futuro, l’energia nuova, pulita, dinamica, non schiava di interessi politici o economici: i giovani.

Accorsi da ogni dove, dal nord, dal sud, daile montagne, organizzati in piccoli gruppi di amici, armati di scope, pale, guanti e sacchetti, dormono a cielo aperto, lavorano senza parlare, senza vantarsi, agiscono in silenzio, senza un capo, senza un coordinatore, disorganizzati ma gli effetti che producono sono strabilianti.

Puliscono, riempiono sacchetti, spazzano strade  e marciapiedi, gli edifici pubblici, le cliniche, gli ospedali, i luoghi di culto: come api, o formiche lavorano senza sosta, senza criticare, pronti a confortare chiunque soffre, abbracciare, offrire acqua, panini, frutta, pasti caldi.

Sono sorte bancarelle ad ogni 10 metri, che offrono bottigliette d’acqua, cibo, frutta: il tutto raccolto con iniziative proprie, donazioni da famiglie, amici, parenti.

“Perchè siamo qui?”, mi spiega Leila Mkerzi, una ventenne con la maglietta dell’ordine di Malta, “Perché è nostro dovere. Aspettare che lo Stato da solo possa pensare a tutto vuol dire ritardare l’emorragia”. E riprende la scopa per spazzare la scala che porta da Jemmeizeh ad Ashrafieh.

Un altri gruppo, tre giovani con una signora, sono davanti ad un negozio: comprano con soldi propri scope, sacchetti e guanti. Il commerciante non fa loro alcuno sconto. “Non vogliamo nulla, vogliamo solo vivere” dice uno dei ragazzi. Poi interviene subito sua madre, la signora Rita Freim: “Non pensiamo più, abbiamo la testa completamente vuota, non contiamo più su nessuno; nessuno dall’estero ha mai fatto qualcosa di concreto per noi. Cosa fa il mondo? Ci inviano due tre aerei di aiuti, si lavano la coscienza e vanno. Che è venuto a fare Macron? Un’altra farsa. Non ho più speranze”.  E mentre si accinge a pulire precisa: “Io non ho speranza, ma loro – i giovani, sì. E io li aiuto perché sono ancora viva”.

Nelle strade di Beirut devastata, i giovani sono decine di migliaia: amici di scuola, universitari, scout, parrocchiani, musulmani, cristiani. Un gruppo di giovani dello Chouf, si rifiuta di dire chi fra loro è druso; un gruppo di armeni venuti da Bourj Hammoud, un altro quartiere distrutto,  rivendica: “Siamo libanesi e basta”.

La maggior parte di questi giovani è nata dopo il 2005-2006. Non hanno conosciuto gli orrori della guerra civile, ma hanno visto privazioni e governi falliti; hanno vissuto senza corrente elettrica, acqua potabile, lavoro.  Ordinati, volenterosi, vogliono creare con le loro mani un Paese migliore, un futuro migliore senza aspettarsi nulla dall’estero. Certo, sperano di ottenere qualche sostegno o aiuto, ma se non arriva, faranno quello che possono con le loro forze.

Fra di loro vi sono anche giovani siriani rifugiati in Libano. Non è il loro Paese, ma il dolore e la volontà di cambiare li ha uniti ai libanesi.

Ho visto un solo religioso, in clergyman che distribuiva panini e bottigliette d’acqua agli sfollati: è un pastore protestante siriano di Afrin (nord della Siria, occupata dai turchi).  Si chiama Hassan: era musulmano, convertito al cristianesimo. “ Vedo Cristo in ognuno di queste persone che oggi soffrono, non hanno un tetto e hanno fame”, dice prima di  sparire in mezzo alla folla dei disperati che affollano il centro di Beirut.

A sostegno della popolazione di Beirut e del Libano, in appoggio alla Caritas Libano, AsiaNews ha deciso di lanciare la campagna "In aiuto a Beirut devastata". Coloro che vogliono contribuire possono inviare donazioni a:

- Fondazione PIME - IBAN: IT78C0306909606100000169898 - Codice identificativo istituto (BIC): BCITITMM -

   Causale: “AN04 – IN AIUTO A BEIRUT DEVASTATA”

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