20/08/2014, 00.00
EGITTO
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Egitto, attacchi alle chiese: un anno dopo

di Nirmala Carvalho
Intervista al preside di una scuola gesuita a Minya. Il sacerdote parla di "un anniversario che il mondo ha voluto dimenticare". Oggi nella città "la situazione è migliorata", soprattutto nei rapporti tra musulmani e cristiani. La comunità islamica "ci rassicura sul bisogno della nostra presenza qui".

Minya (AsiaNews) - "Il 14 agosto scorso è stato un anniversario che il mondo ha voluto dimenticare: un anno dalla distruzione di tante chiese in Egitto. Come se noi cristiani non fossimo esseri umani e, per questo, non meritassimo di vivere". Così p. Bimal Kerketta sj, sacerdote indiano e preside della scuola dei Padri Gesuiti di Minya, ricorda la furia islamista che nel 2013 ha colpito istituti cristiani e luoghi di culto. Da oltre 10 anni nel Paese, il gesuita ha celebrato con la sua comunità una messa per non dimenticare quanto accaduto il 14 agosto 2013, e chiedere a Dio "la possibilità di ricostruire ciò che è andato distrutto". In un intervista ad AsiaNews, p. Kerketta racconta cosa è cambiato con la salita al potere dell'ex generale Abdel Fattah Al-Sisi, soprattutto nei rapporti con i musulmani.

Oggi vivete nella precarietà?

Anche se la situazione è migliorata, bisogna sempre fare attenzione e cautela. Il governo sta cercando di fare del suo meglio, ma dati i grandi numeri non può sempre agire con tempestività. Una cosa che si dice è che quello che Mubarak non è riuscito a fare in 30 anni, Morsi e i Fratelli musulmani sono riusciti a ottenerlo in soli due anni: frodi, corruzione, menzogne e altro.

Vede segni di speranza?

Sì, con il governo di Al-Sisi sembra esserci una speranza. Ci sono musulmani pronti ad aiutarti, ma non possiamo ancora contare su di loro, perché temono di essere considerati "khafir", non "veri" musulmani. Se un bravo islamico parla contro simili atti può essere ucciso da chiunque, senza che nessuno faccia nulla.

Dopo la distruzione della sua scuola, ha ricevuto sostegno dalla comunità islamica?

Sì, molte persone hanno mostrato amore e apprezzamento per il nostro lavoro. Tutti i musulmani che conoscono quello che facciamo sono sempre riconoscenti, perché vedono la differenza. Dopo l'attacco hanno dimostrato di gradire il contributo di noi gesuiti alla società e all'educazione dei loro figli. Oggi questa gratitudine è manifestata in modo più aperto, non solo dal punto di vista accademico, ma nella vita quotidiana. E continuano a rassicurarci sul bisogno della nostra presenza qui, per il bene di tutti.

Avete ricevuto risarcimenti per l'attacco subito?

Sì, ma non erano sufficienti rispetto all'entità dei danni, quindi non li abbiamo accettati. Abbiamo chiesto di demolire quello che restava dell'edificio, perché è più facile ricostruire da zero che riparare il poco che era rimasto.

 

 

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