10/04/2018, 11.12
ASIA
Invia ad un amico

Il paradosso Usa: una superpotenza piena di debiti e con la voglia di guerra (II)

di Maurizio d'Orlando

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Usa si sono imposti per la superiorità quantitativa della propria base produttiva interna, sia agricola che manifatturiera. Il dollaro come moneta di scambio mondiale ha gonfiato l’economia solo coi consumi, e ora si rischia l’insolvenza. In attivo solo l’industria bellica. Una crisi anche umana, delle scuole e delle università. Dal nostro esperto di economia politica. La seconda di quattro parti.

Milano (AsiaNews) - Dovremmo poi dire del paradosso USA, ma un semplice accenno purtroppo non è sufficiente. La sua base produttiva – possente e l’unica intatta dopo la 2a Guerra mondiale – è ormai talmente (ed intenzionalmente) delocalizzata al punto che il suo Pil è per il 70% costituito dai consumi, grazie alla possibilità di emettere dollari a volontà e proprio questo è il paradosso. Gli USA hanno vinto due guerre mondiali ed hanno vinto il confronto con il blocco comunista, non perché erano superiori tecnologicamente (i brevetti industriali tedeschi e l’industria bellica furono senza dubbio all’avanguardia sia nel 1o che nel 2° conflitto mondiale) o militarmente (i generali americani – tranne Patton –  furono poco più che mediocri ed altrettanto si può dire del corpo ufficiali e della truppa) e nemmeno  ideologicamente (i partiti comunisti hanno avuto una presa ineguagliata sulla società civile in tutto il mondo, il sistema sovietico implose per le sue enormi falle nel sistema produttivo). L’America storicamente s’è imposta invece come potenza anche militare grazie alla superiorità quantitativa della propria base produttiva interna, sia agricola che manifatturiera che alla disponibilità di risorse energetiche e minerarie sul suo territorio. A tal punto si è generata una spirale ascendente di concomitanze positive sinergiche. La supremazia economica e militare ha conferito poi all’America il ruolo di guida anche politica, anche se in un primo momento solo dell’Occidente.

Il dollaro moneta mondiale

Per conseguenza, la sua valuta, il dollaro, è diventata quella di riferimento dei mercati occidentali, seppure da quasi 50 anni, dal 1971, non sia più nemmeno convertibile in oro. In successive tappe, in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli USA, unica superpotenza mondiale rimasta, hanno conseguito anche il predominio mondiale monetario e finanziario. Tale infatti è stata ed è la potenza americana, che l’oro, per millenni cardine dei pagamenti internazionali, ha finito per essere completamente inutilizzato come strumento valutario, del tutto spodestato dal dollaro. È così che gli USA sono arrivati a beneficiare di una rendita senza precedenti storici. Poiché il dollaro è la moneta interna americana ma è anche valuta universalmente accettata, gli USA possono ottenere beni reali e servizi dal resto del mondo semplicemente emettendo la propria moneta senza dover dar altro in cambio. Fin quando, dunque, il resto del mondo continua ad utilizzare dollari ed a comprare i Treasury bond – cioè ad utilizzare il debito del governo federale al posto dell’oro o di un’altra moneta per saldare i pagamenti reciproci – il perenne deficit commerciale americano con l’estero non è più un problema, è irrilevante. Svalutare e rendere più conveniente produrre di più internamente per esportare di più – quello che devono fare gli altri Paesi per riportare in pareggio la bilancia commerciale – non è perciò necessario agli USA. In tal modo svanisce anche il rischio o meglio la certezza di provocare inflazione interna che il ricorso ad una svalutazione valutaria ovviamente comporta. Ora, però, siamo ad un punto di svolta, l’elastico è stato teso troppo e troppo a lungo, così da innestare una spirale discendente. La globalizzazione, infatti, ha fatto letteralmente evaporare la base produttiva americana e di fatto, la sola industria totalmente rimasta sul suolo americano (a buon ragione dal punto di vista strategico), è quella del complesso militare industriale[1]. In tal modo, però, vengono a svanire anche le premesse della supremazia statunitense e quindi del dollaro e quindi della relativa rendita. Questo è il paradosso americano e non si capisce bene per quale ragione gli USA debbano essere ancora beneficiari di tale rendita. Per quale ragione gli USA possono consumare senza dover produrre, mantenere cioè una così elevata proporzione dei consumi rispetto al Pil, al pari di Paesi poverissimi che sopravvivono in gran parte grazie agli aiuti umanitari?

Il gendarme del mondo?

L’unica ragione che potrebbe forse spiegare il paradosso americano potrebbe essere che il resto del mondo per debolezze strutturali interne implicitamente riconosca agli USA un ruolo di gendarme mondiale. La rendita valutaria, una sorta di signoraggio globale, sarebbe dunque la remunerazione per questo ruolo di polizia del pianeta. È così? Forse, ma non è sicuro che ci sia l’accordo esplicito di tutti. Tuttavia, anche supponendo per un attimo che sia così, mantenere una presenza militare dominante in tutto il mondo ha dei costi enormi. Gli USA, come s’è detto, già non dispongono più di sufficienti risorse produttive interne. A maggior ragione non possono per far fronte ai costi di mantenimento di questo “Imperium” in continua crescita. Si dovrebbero quindi ipotizzare dei disavanzi commerciali statunitensi sempre crescenti. Fino a quando ciò sarà accettabile per il resto del mondo prima di arrivare ad un palese stato di insolvenza, cioè ad un punto di rottura? Se il gendarme chiede l’aumento chi ne decide la paga? In ogni caso, accantonando per un attimo il quesito, se la globalizzazione è certamente la scelta preferita dall’apparato statale USA, il “deep state”, la scelta degli elettori americani con l’elezione di Trump, il protezionismo, è stata del tutto diversa. È questa dunque la soluzione del paradosso? In secondo luogo è possibile riportare l’industria in America? Si noti in primo luogo che il neo-protezionismo americano, non è un vincolo esterno ma una scelta determinata da esigenze elettorali interne e forse da esigenze strategico-militari. È un’autolimitazione della rendita che non risolve affatto le premesse da cui scaturisce il paradosso – il duplice ruolo del dollaro, moneta nazionale e valuta internazionale. In secondo luogo, il ricorso alla guerra dei dazi per riportare in patria oggi il settore manifatturiero, al di là del problema delle ritorsioni, potrà avere una valenza forse nel lungo periodo. Senza altri elementi, questa scelta potrebbe però rivelarsi come ormai tardiva ed inutile. Il Paese ha infatti perso in primo luogo la cultura ed il tessuto industriale e sembra orientato solo a fare finanza (anche se giocare in borsa non significa davvero fare finanza). Soprattutto, però, sprofonda nella crisi della disponibilità interna di manodopera industriale produttiva adeguata e qualificata. Le ragioni sono diverse: il basso livello qualitativo delle scuole (secondarie in particolare), la crisi degli oppioidi (liberamente e scriteriatamente prescritti come antidolorifici), la crisi sociale (con l’alto costo delle famiglie “liquide” tra convivenze e divorzi seriali, l’obesità dilagante[2] ed i seri disturbi dell’alimentazione, le gravidanze adolescenziali, la diffusa pornografia invalidante compulsiva)[3].  Perfino le università, un tempo motore dell’innovazione e fiore all’occhiello dell’eccellenza americana, sperimentano una sorta di guerra civile, per ora di bassa intensità, con le safe spaces, le aree del politicamente corretto e con i relativi controlli ideologici. Ne risente in tal modo la qualità della formazione universitaria, costosa e sempre meno qualificante, anche qui con importanti ricadute sulla disponibilità di laureati per impieghi di alto livello. Ricostruire la perduta base produttiva interna non sarà né facile né immediato. Quale che sia l’esito della partita che si gioca a Washington tra protezionismo e globalismo, è però evidente che lo squilibrio strutturale del paradosso americano – “Imperium” senza base produttiva ed un’economia basata sui consumi – nel breve termine permane ed anzi si aggrava.

 

(Fine della seconda parte. Per la prima parte, vedi qui)

 


[1] Sulla qualità ed efficienza del complesso militare industriale americano, un settore piagato da corruzione, sprechi ed inefficienze, tipiche di settori che vivono di appalti statali e godono di un monopolio non scalfibile, ci sarebbe molto da dire.

[2] https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2676543 il 40 % degli adulti è classificato come obeso con un indice di massa corporea superiore a 30.

[3] Altre due gravi emergenze sono in primo luogo l’alto costo, in relazione al PIL, delle cure mediche – di qualità media rispetto agli standard di altri paesi avanzati – ed il problema delle relative coperture assicurative, da cui deriva anche il fallimento economico dell’Obamacare. In secondo luogo, ma problema molto serio nel lungo periodo, vi è il problema pensionistico, privo di adeguate coperture per i diritti futuri maturati, una bomba ad orologeria che però è comune a quasi tutti i paesi avanzati. Tuttavia questi sono fattori che solo indirettamente influiscono nell’immediato sulla ricostituzione della base produttiva interna americana.  

TAGs
Invia ad un amico
Visualizza per la stampa
CLOSE X
Vedi anche
Un mondo pieno di debiti, produrrà crisi economiche e politiche (IV)
12/04/2018 12:01
Lo squilibrio cinese, fra eccedenze valutarie e manipolazione dello yuan (III)
11/04/2018 14:48
Economia mondiale in crisi. La fine di un'epoca (I)
09/04/2018 14:21
In discesa le borse dell’Asia dopo i timori per Grecia e Wall Street
07/05/2010
Rischia di esplodere già quest’anno il debito pubblico degli Usa
03/03/2010


Iscriviti alle newsletter

Iscriviti alle newsletter di Asia News o modifica le tue preferenze

ISCRIVITI ORA
“L’Asia: ecco il nostro comune compito per il terzo millennio!” - Giovanni Paolo II, da “Alzatevi, andiamo”