17/02/2016, 12.20
SIRIA - LIBANO
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Io, musulmano nelle carceri dello Stato islamico per aver disegnato la Vergine Maria

di Nour Braïdy

La testimonianza di Khalifa el-Khoder, per sette mesi rinchiuso in una prigione dei jihadisti. Dietro il suo arresto, l’aver disegnato un’immagine della Madonna su un muro di Aleppo, come segno di pace. Egli racconta di moschee trasformate in prigioni, celle sovraffollate e torture quotidiane. 

Beirut (AsiaNews/OLJ) - Per la prima volta Khalifa el-Khoder, un siriano di 21 anni, racconta i suoi sette, lunghi mesi di prigionia nelle mani dello Stato islamico. Egli ricorda ancora con chiarezza le celle in cui è stato rinchiuso, le grida dei prigionieri torturati, l’odore acre che impregnava le narici. All’origine della discesa all’inferno, per lui musulmano, l’aver disegnato un’immagine della Vergine Maria su un muro di Aleppo, come segno di pace.

Oggi pubblichiamo la prima parte di questa testimonianza. Per gentile concessione di L’Orient-Le Jour. Qui l’articolo originale

Khalifa el-Khoder aveva appena compiuto 21 anni quando la sua vita è cambiata di netto. Era il giugno 2014, al punto di controllo di Tal Jijan nella provincia di Aleppo. Un marocchino, membro dell’organizzazione Stato islamico (SI), ha puntato il dito verso di lui e gli ha detto: “Tu, prendi le tue cose e scendi”. Quello è stato l’inizio di sette, lunghi mesi di prigionia, durante i quali egli scoprirà la natura del suo “crimine”: aver disegnato la Vergine Maria su un un muro di Aleppo. 

La discesa agli inferi, per questo giovane siriano originario di Raqqa, era cominciata un anno prima, nel mese di aprile 2013, qualche mese dopo l’inizio della battaglia di Aleppo che trascina la città in un turbinio di violenze che provoca, fra gli altri, l’esodo dei cristiani. Mentre infuriavano i combattimenti tra l’esercito siriano e i ribelli, Khalifa decide di disegnare la Vergine Maria su una parete in rovina della città. Khalifa è musulmano. Per questo studente di sociologia, disegnare la Vergine è un messaggio di pace per il mondo. 

Nel 2014 Khalifa vive da solo nella cosiddetta “Aleppo liberata” (la zona sotto il controllo del Free Syrian Army, ndr). Tuttavia, egli compie frequenti viaggi a Raqqa per osservare i cambiamenti nella sua ex città, finita nelle mani di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico] nel giugno dello stesso anno. “Dopo ciascuno dei mei viaggi di andata e ritorno - racconta a L’Orient-Le Jour via Skype - potevo osservare i cambiamenti radicali nell’autoproclamata capitale dello SI: i muri erano tutti dipinti di nero, il numero degli stranieri che vivevano al suo interno non smetteva di crescere…”. 

“Passare da un mondo ad un altro”

Il 3 giugno 2014, dopo una serata ad Aleppo trascorsa da amici, Khalifa decide di andare di primo mattino a Raqqa passando, per precauzione come sua abitudine, da Manbij (nella provincia di Aleppo). Ma questa volta, al primo punto di controllo dello SI, a Tal Jijan, il furgone in cui si trova viene fermato. Un miliziano marocchino dello SI, accompagnato da un siriano e da un bambino, gli ordina di scendere. Quando esce dal van, Khalifa è terrorizzato: “Mi sono detto è finita, sono morto”. 

Il giovane viene trasportato in una moschea, che funge da prigione. “Non riuscivo a camminare, non sentivo nemmeno più il mio corpo. Mi sembrava di passare da un mondo ad un altro”. 

Khalifa viene accerchiato, poi spogliato e interrogato. “Ho detto solo che andavo a Manbij per fami una doccia e il bucato, perché non c’era acqua in quel momento ad Aleppo. Mi hanno chiesto se avessi pregato e io ho risposto in maniera negativa. A quel punto, mi hanno mandato a pregare. La mia è stata una preghiera di addio”. Senza capire cosa stesse succedendo attorno a lui, Khalifa si vede accusato di tutti mali, tra cui essere un membro del fronte di al-Nusra (rivali dello Stato islamico sul territorio siriano, ndr). Senza avere nemmeno il tempo di farsi delle domande, Khalifa si trova a bordo di una macchina guidata da un tunisino. 

“Volevo che mi uccidessero”

Direzione il carcere di al-Bab, a nord-est di Aleppo, un antico palazzo di giustizia trasformato dal Free Syrian Army e poi dallo SI in un centro di detenzione. Senza lasciargli il tempo di poter profferire una sola parola, il giovane siriano viene gettato dentro una cella di meno di dieci metri quadrati, all’interno della quale si trovavano già altri dieci prigionieri, tutti guerriglieri del Fsa. Trascorrerà al suo interno un mese, prima di essere trasferito in un’altra cella di 80 metri quadrati con 90 prigionieri, e poi un’altra ancora di poco meno di 40 metri quadrati, nella quale sono assembrati 55 prigionieri. Secondo lui, questo passaggio da una cella all’altra è un metodo usato dallo SI per impedire che si creino legami di amicizia fra i detenuti. 

Fin dai primi giorni della sua detenzione, Khalifa si ricorda in particolare della porta della sua cella. “Questa porta nera mi paralizzava, mi soffocava. Trascorrevo le mie giornate con la testa appiccicata al muro. Ero sul punto di desiderare che mi uccidessero”. Ma Khalifa si riprende e decide di far di tutto per sopravvivere: “Ho cominciato a immaginare dei disegni colorati sulle porte, Daesh odia i colori”. 

A poco a poco, Khalifa si adatta alla prigione e si piega alle sue regole. “La preghiera era obbligatoria, altrimenti era la tortura” racconta l’ex detenuto. Il cibo viene servito due volte al giorno. “Al mattino avevamo diritto a un pezzo di pane con un po’ di marmellata o un uovo, e la sera a un po’ di riso”. Con documenti che risalivano ai tempi in cui la prigione era un palazzo di giustizia, Khalifa si costruisce dei cucchiai con i quali mangiare. 

“Ogni 40 giorni - ricorda - ci davano un rasoio che doveva essere usato da cinque persone. Se qualcuno si rasava del tutto la barba, veniva portato nella sala delle torture, perché dovevamo tagliarci solo i baffi, tra le gambe e sotto le braccia”. 

Khalifa dorme sul pavimento, con un sacchetto di scarpe come cuscino. 

Se la sofferenza ha una voce…

Durante il suo soggiorno, Khalifa riesce a stabilire dei legami con alcuni prigionieri. “Siamo riusciti - racconta - a costruire una scacchiera e parlavamo spesso di quello che avremmo fatto una volta usciti”. A suo avviso, i detenuti fra i 15 e i 70 anni erano “in gran parte dei chabbiha (i miliziani pro-Assad) e dei combattenti del Fsa”. Egli annovera anche dei funzionari arrestati dallo SI dopo aver votato per la rielezione di Bashar al-Assad come capo di Stato. 

Ogni settimana un jihadista entra nella cella e chiama alcuni detenuti. “Non sono mai tornati, sappiamo che sono stati giustiziati”. Un giorno, nell’agosto 2014, i prigionieri sentono le guardie fare festa e ridere. Avevano appena arrestato un giapponese. Haruna Yukawa sarà giustiziato nel gennaio 2015. 

Ancor più traumatiche delle risa dei carcerieri, il grido di dolore dei detenuti torturati. “Se la sofferenza ha una voce, è quella” racconta Khalifa. “Ogni giorno udivo dei detenuti urlare il nome di Allah e i carnefici urlare Stato islamico!”. Il detenuto doveva poi rispondere “resterà”. Per cercare di dimenticare, Khalifa ascolta le registrazioni messe a disposizione dei prigionieri. “Potevamo scegliere fra gli inni di Daesh e dei corsi sull’islam. Li ho imparati tutti a memoria”. 

Le urla perseguitavano Khalifa. E anche gli odori. “Il puzzo di escrementi, del sudore, dei nostri vestiti sporchi e della muffa che non ha mai abbandonato le mie narici. La cella, dotata di un unico bagno, non era areata. Era buia e sporca. Eravamo sottoterra e, in estate, il caldo era soffocante”. 

Dopo 50 giorni di prigionia, Khalifa subisce il primo interrogatorio Come tutte le sessioni che seguiranno, egli viene interrogato da un uomo mascherato, di nazionalità siriana. “Mi diceva che sapeva tutto di me e mi colpiva con un tubo verde, per farmi confessare”. Ma Khalifa non dice una sola parola. Qualche settimana più tardi, un membro dello SI entra nella cella, lo guarda negli occhi e poi lancia l’accusa: “Chi ha disegnato la Vergine? Stai forse leccando gli stivali dei ‘nasrani’ (cristiani)?”. In quel momento, Khalifa non ha dubbi: è arrivato per lui il momento di passare alla sala delle torture. 

(segue)

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