17/10/2017, 12.33
IRAQ
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L’esercito irakeno strappa ai curdi due centri petroliferi alla periferia di Kirkuk

Presi i centri di Bay Hassan e Havana, dal 2014 in mano a Erbil. Ogni giorno producono 250mila barili e garantivano il 40% delle esportazioni della regione autonoma. Il sostegno turco a Baghdad e l’appello alla calma e al dialogo degli Stati Uniti. Intellettuali curdi: gli elettori al referendum “imbrogliati da false promesse”. 

 

Baghdad (AsiaNews) - Questa mattina l’esercito irakeno ha ripreso il controllo dei due più importanti centri petroliferi dell’area di Kirkuk, al centro negli ultimi giorni di un’aspra contesa fra Erbil e Baghdad. La polizia federale riferisce che i soldati hanno occupato l’area, dopo che le forze curde si sono ritirate senza combattere allontanando, per il momento, i timori di un nuovo conflitto fra regione autonoma e governo centrale. 

In una nota le forze di sicurezza irakene riferiscono che “unità della polizia federale hanno preso i centri petroliferi di Bay Hassan e Havana”, a nord di Kirkuk. La sera precedente, i tecnici curdi avevano interrotto le operazioni di estrazione e abbandonato l’area per l’arrivo ormai prossimo dei soldati di Baghdad. 

Questi due centri dall’importanza strategica erano stati occupati nel 2014 dalle milizie curde (i Peshmerga), che avevano approfittato del caos e dello sbandamento dell’esercito irakeno all’indomani dell’ascesa delle milizie dello Stato islamico (SI, ex Isis). Nell’estate i jihadisti avevano occupato Mosul e gran parte della piana di Ninive, incontrando la resistenza delle sole milizie curde che hanno costituito un argine all’avanzata. 

A Bay Hassan e Havana vengono prodotti ogni giorno fino a 250mila barili di petrolio; dal 2014 essi erano sotto il controllo del ministero delle Risorse minerarie della regione autonoma del Kurdistan e ricoprivano un ruolo strategico per le casse dell’amministrazione locale. 

Oggi il Kurdistan deve affrontare la più grave crisi economica della sua storia; la perdita di questi due centri potrebbe rivelarsi durissima, poiché in questi ultimi anni assicuravano fino al 40% del totale delle esportazioni petrolifere. 

Gli Stati Uniti, preoccupati per i loro interessi nella regione, hanno a più riprese invitato entrambi i fronti alla calma. Tuttavia, Baghdad sembra intenzionata a proseguire nell’offensiva che le ha permesso - in pochi giorni - di riprendere quasi per intero il controllo di Kirkuk e di alcune istallazioni chiave finora nelle mani di Erbil. L’esercito ha strappato in modo indolore anche la città di Sinjar, nella zona nord-ovest della piana di Ninive, in seguito alla ritirata dei Peshmerga. 

Il Dipartimento di Stato americano chiede di “scongiurare ulteriori scontri”. Secca la replica del premier irakeno Haider al-Abadi, secondo cui l’operazione militare è necessaria “per proteggere l’unità del Paese, che corre il pericolo di divisioni” in seguito al voto referendario. “Invito tutti i cittadini - ha sottolineato il Primo Ministro - a cooperare con le nostre eroiche forze armate […] impegnate prima di tutto a difendere i civili, e a imporre la sicurezza e l’ordine”.

Il 25 settembre scorso la regione autonoma nel nord dell’Iraq ha tenuto un referendum per l’indipendenza, che si è chiuso con una schiacciante vittoria dei favorevoli (oltre 90% di sì). Il voto si è svolto anche nel territorio conteso di Kirkuk. Baghdad ha dichiarato che il referendum - svolto a dispetto dell’opposizione regionale e internazionale, fatta eccezione per Israele - è illegale. 

A sostegno di Baghdad corre la Turchia, che si dice pronta a “collaborare in ogni modo” per “mettere fine alla presenza” di elementi del Pkk (il Partito dei lavoratori curdo, considerato una organizzazione terroristica da Ankara) in territorio irakeno. Intanto lo scoppio di una bomba artigianale nel nord dell’Iraq ha provocato la morte di due soldati turchi e il ferimento di altri. In risposta l’aviazione ha centrato postazioni del Pkk nell’area. 

La questione curda resta dunque aperta e sembra inasprirsi ogni giorno di più, provocando più di un’allerta fra i governi regionali e le cancellerie occidentali. Sebbene a livello ufficiale sia parte dell’Iraq, da oltre un quarto di secolo il Kurdistan dispone di un proprio Parlamento, un governo, un presidente, un inno e una bandiera, oltre che di forze militari e di polizia. 

Oggi su Le Monde, due esperti e studiosi curdi sottolineano come l’attuale regime politico assomigli a una “mediocre imitazione” delle monarchie autoritarie del Golfo, piuttosto che Israele unico fra gli Stati della regione a sostenere il referendum pro-indipendenza. Per Mariwan Kanie e Aras Fatah, studi sociologici e politici alle spalle ed entrambi esperti di questioni locali, gli elettori che hanno partecipato al referendum del 25 settembre “sono stati imbrogliati da false promesse” lanciate per anni dai dirigenti curdi. E un paragone fra curdi e israeliani è “sbagliato e anti-storico”, visto che il popolo curdo è più  simile “ad armeni e palestinesi”. Ecco perché, concludono, essi “hanno bisogno di grandi amici, non di casse di risonanza della propaganda” in Medio oriente e nel mondo.

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