26/04/2005, 00.00
CINA
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Lo "tsunami" dei prodotti tessili cinesi danneggia anche Africa e Asia

Pechino (AsiaNews/Agenzie) - I prodotti tessili cinesi hanno invaso il mercato, con gravi conseguenze per le ditte occidentali ma ancor più nei paesi in via di sviluppo.

Di fronte a questo vero "tsunami" del tessile cinese soccombono molte ditte in Africa. Dal 2000, quando gli Usa hanno aperto il loro mercato ai prodotti del continente nero, la produzione in Africa è cresciuta tanto che perfino alcuni paesi asiatici hanno aperto catene di produzione in Kenya, Madagascar, Swaziland. Il Lesotho in soli 5 anni è diventato uno dei maggiori produttori tessili e copre il 31% dell'intera esportazione africana in America e il 90 % delle esportazioni del Lesotho. Ma già nella prima metà di gennaio 6 fabbriche sono fallite, con la perdita di 15 mila posti di lavoro, mentre 10 mila dipendenti sono pagati solo per le ore effettivamente richieste. La disoccupazione è salita al 40%.

Il Sud Africa ha perso oltre 30 mila posti di lavoro nel settore tessile; in Swaziland e Namibia si prevede il licenziamento di 3 lavoratori su 4 entro giugno. Le ditte di abbigliamento in Algeria, Marocco e Tunisia, finora privilegiate nel rapporto commerciale con l'Europa, temono di avere simile destino. L'invasione cinese dei prodotti tessili produce ondate preoccupanti anche in Asia,  in Sri Lanka, Pakistan, Cambogia, ma soprattutto in Bangladesh, dove il tessile occupa fino a 3 milioni di lavoratori e copre i ¾ delle esportazioni di merci. Secondo il Fondo monetario internazionale l'abolizione dei contingenti comporterà per il Bangladesh una riduzione del 7,7 % dell'occupazione totale, una riduzione delle esportazioni del 29,5 % e del 4,1 % del Pil.

Nella UE, nei primi due mesi 2005, si è avuto un incremento dell'export cinese pari al 63% (dati relativi a 19 paesi su 25),  soprattutto per calze e calzini (con un + 5.673% dell'import), per i pantaloni da uomo (+900%), garze mediche (+ 342%), i pullover (+210%) e i vestiti da donna (+111%), con paralleli vertiginosi cali dei prezzi. Negli Usa da gennaio a marzo 2005, rispetto allo stesso periodo del 2004, l'importazione dei calzoni di cotone è aumentata del 1521% e per la camicie in maglia del 1258%, mentre l'aumento generale è stato del 62,5%.

Preoccupati per le proprie aziende e per la perdita di posti di lavoro, Usa e U.E. intendono limitare le importazioni dalla Cina, applicando una clausola degli accordi commerciali che prevede un aumento massimo del 7,5% (clausola in vigore sino al 2008). La U.E. è divisa e molti stati sono contrari ad ogni limitazione.

La Cina critica le iniziative protezionistiche contro le sue esportazioni e rileva che non può essere penalizzata a causa della maggiore competitività delle sue industrie.

Analisti occidentali fanno notare che l'aumento delle esportazioni tessili accresce il Pil cinese, con maggiori importazioni di prodotti e tecnologia in settori dove gli stati occidentali sono competitivi: misure protezionistiche deprimerebbero le importazioni della Cina. Da notare che molte industrie tessili occidentali  hanno aperto filiali cinesi, conservando in Europa direzione, progettazione e assemblaggio. Secondo Cao Xinyu, vice presidente del Camera di Commercio cinese, il 40% dei produttori tessili in Cina sono joint ventures tra cinesi e stranieri, mentre il 45% sono imprese private e solo il 13% sono di proprietà statale.  Infine, una politica protezionistica scatenerebbe le reazioni di Pechino, specie della fazione contraria a una completa apertura del mercato cinese al mondo.

A causa dell'invasione cinese e dell'irrigidimento occidentale, gli altri paesi in via di sviluppo sono costretti a cercare accordi regionali con Ue e Usa, trascurando il miglioramento delle condizioni dei propri lavoratori. Già in ottobre il governo del Bangladesh ha annunciato un allentamento della regolamentazione sul lavoro femminile, quello filippino intende esentare l'industria tessile dai minimi salariali, in Tunisia le imprese chiedono maggiore flessibilità sull'orario di lavoro. (PB)
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