02/10/2015, 00.00
MYANMAR
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Sul dramma dei Rohingya il governo birmano vuole censurare il papa e il card. Bo

di Francis Khoo Thwe
Funzionari del ministero degli Affari religiosi hanno avvicinato il porporato alla vigilia del viaggio a Roma. E hanno chiesto di non usare il controverso termine durante gli incontri con il pontefice, ma “Bengali” o musulmani Rakhine. In vista del voto aumentano le tensioni confessionali. Una strategia del terrore voluta da governo e militari per mantenere il potere.

Yangon (AsiaNews) - Il  governo birmano vuole censurare papa Francesco e il cardinale Charles Bo, cercando di impedire l’uso del termine “Rohingya” per identificare la minoranza musulmana dello Stato Rakhine, nell’ovest del Myanmar, oggetto da anni di abusi e persecuzioni. Del resto il pontefice argentino è stato uno dei pochi leader mondiali ad aver parlato, e a più riprese, del dramma della minoranza musulmana in Myanmar usando proprio il termine “Rohingya”, inviso alle alte sfere governative di Naypyidaw. In un Paese che si prepara alle elezioni generali dell’8 novembre fra tensioni confessionali, leggi razziali liberticide e conflitti etnici, si fanno sempre più evidenti i segni di un progressivo arretramento dei diritti umani, civili e politici promessi nel recente passato dopo decenni di feroce dittatura militare. 

La vicenda risale ai giorni scorsi, alla vigilia della partenza dell’arcivescovo di Yangon e primo cardinale della storia della Chiesa del Myanmar, alla volta di Roma per partecipare al Sinodo sulla famiglia. Secondo quanto riferisce il quotidiano birmano Mizzima News, alcuni funzionari del ministero birmano degli Affari religiosi hanno avvicinato il cardinale, chiedendogli di non usare la parola “Rohingya” al cospetto di papa Francesco, nelle udienze e durante i lavori in Vaticano. 

Nell’intervista il porporato ha riferito che il ministro “voleva incontrarmi, ma finora non l’ho visto”. L’arcivescovo di Yangon conferma però il faccia a faccia con alcuni rappresentanti del dicastero, in relazione alla denominazione di persone di etnia ‘Rohingya’. “Se viene usata la parola Rohingya - prosegue -, la gente li identifica con i cittadini dello Stato Rakhine, ed è proprio questa la corrispondenza che loro non vogliono. Per questo spingono ad usare solo il termine Bengali o musulmani dello Stato di Rakhine”. 

Il card Bo parla di situazione “cruciale” e auspica che il problema sia risolto “prima che si trascini per troppo tempo” e diventi “fonte di ulteriore violenza” e “preoccupazione in chiave terrorismo” per la comunità internazionale. Alla domanda se userà il termine “Rohingya” davanti al papa, il porporato ha risposto che potrebbe usarlo per indicare la “controversia”, ma per definire le persone userà l’espressione “musulmani dello Stato Rakhine” a causa “dell’estrema sensibilità della materia”. Egli ha però chiarito che si rifiuta di usare il termine “Bengali” approvato dal governo, perché in realtà le famiglie vivono nelle terre dell’odierno Myanmar da più di un secolo. 

Questo tentativo di censura da parte del governo birmano conferma una volta di più il clima di tensione etnica e confessionale che caratterizza il Myanmar nell’ultimo periodo. Le controverse leggi volute dalla frangia estremista buddista (matrimoni misti, conversioni, adulterio, poligamia) cominciano a sortire i primi effetti negativi. Secondo fonti di AsiaNews nelle famiglie miste, in cui uno dei due genitori è buddista e l’altro cattolico, da qualche settimana sono sospese le lezioni di catechismo e non vengono impartiti i sacramenti ai figli. Bloccate anche le nuove celebrazioni di matrimoni misti, con i vescovi timorosi per possibili ripercussioni, mentre aumentano i problemi nelle coppie già sposate. 

Di recente un convento di suore è stato attaccato e devastato, perché coinvolto (suo malgrado) in una vicenda di cronaca. Un ragazzo di 14 anni (buddista) ospite dell’orfanotrofio avrebbe ucciso un bambino di soli 4 anni (anch’egli di famiglia buddista). Gli abitanti della città di Nyaungwon hanno circondato il convento e distrutto ogni cosa, costringendo le suore a fuggire; a nulla sono serviti, sinora, gli appelli alla calma lanciati dai vescovi. Un testimone spiega che, in questo clima, “non è più possibile” per la comunità cattolica “fornire aiuto e assistenza ai poveri, se di religione buddista”. A questo si aggiunge poi il rischio di essere accusati di conversioni forzate, ospitando nelle scuole e negli istituti cattolici dei giovani di altre fedi religiose. “La situazione - afferma la fonte, anonima per motivi di sicurezza - si fa sempre più difficile”. 

Dietro questa escalation di tensione confessionale ed etnica vi è un movimento estremista buddista, che opera - secondo i bene informati - con il benestare delle massime autorità politiche e istituzionali del Paese, in particolare i militari da sempre il vero potere forte del Myanmar. Un clima di paura e tensione che spaventa gli stessi buddisti, molti dei quali osteggiano le leggi approvate di recente [con il voto favorevole anche del principale partito di opposizione, la Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi]. 

Ad inasprire la situazione la scelta del governo di rilasciare dalle carceri prigionieri comuni, criminali, assassini, mantenendo però dietro le sbarre i detenuti politici, a decine tuttora rinchiusi in prigione. Secondo le fonti di AsiaNews dietro questa strategia della tensione vi sono le elezioni di novembre, con i militari e il governo che cercano di dissuadere la gente dal votare, mentre si registrano già i primi episodi di brogli (liste errate, elettori mancanti, defunti inseriti fra i potenziali votanti). “Tutte queste mosse hanno uno scopo - conclude la fonte - evitare la vittoria popolare diel partito di Aung San Suu Kyi. Il regime vuole dividere la gente, per continuare a mantenere il potere”. 

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