13/01/2012, 00.00
CINA
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Arresti, condanne e prigioni-manicomio per i dissidenti cinesi

In vista dell’annuale riunione del “Parlamento” cinese, le autorità usano ogni mezzo a disposizione per mettere a tacere dissidenti e cittadini che vogliono presentare le loro petizioni al governo centrale. Oramai lo stato di diritto è stato del tutto messo da parte.
Pechino (AsiaNews) - Mentre il mondo politico cinese si prepara per la sessione annuale dell’Assemblea nazionale del Popolo – il “Parlamento” cinese, che si riunisce una volta l’anno in marzo – le autorità di pubblica sicurezza continuano nella loro opera di repressione contro dissidenti e cittadini comuni che “osano” presentare le loro petizioni al governo centrale per protestare contro corruzione e furto di terre.

Per compiacere i leader centrali e “assicurare uno sviluppo armonioso della società”, infatti, nei mesi precedenti all’Anp viene ordinato un rastrellamento di tutte le voci dissidenti interne. Quest’anno, poi, la situazione è complicata dalla Primavera araba che ha rovesciato diversi regimi nordafricani e mediorientali: Pechino teme che questa ondata democratica possa raggiungere anche la Cina e usa il pugno di ferro per evitarlo.

Gli ultimi casi di repressione vengono dalla provincia settentrionale del Sichuan: le autorità hanno confermato la detenzione dell’attivista Chen Wei, che lo scorso dicembre è stato arrestato e processato per “aver incitato alla sovversione anti-statale”. Andando contro la stessa Costituzione, le autorità locali non hanno comunicato neanche alla famiglia dove Chen sia stato rinchiuso.

La moglie Wang Xiaoyan voleva recarsi nella prigione di Suining per vedere se il marito era rinchiuso lì, ma i funzionari locali le hanno comunicato il 9 gennaio che era stato trasferito: non le hanno permesso neanche la visita regolare, imposta dalla legge, che è un diritto di ogni detenuto prima del trasferimento. A peggiorare le cose è stato confermato che non è stato permesso neanche al suo avvocato, Zheng Jianwei, di incontrarlo.

Chen era un leader della protesta di Tiananmen. Dopo aver scontato un anno e mezzo di prigione per i fatti dell’89, è stato arrestato di nuovo nel 1992 per aver organizzato un partito politico e aver commemorato i martiri del massacro della piazza, e condannato ad altri 5 anni di carcere. Arrestato di nuovo nel febbraio 2011, è stato rimandato due volte davanti al giudice dato che il procuratore non riusciva a trovare prove sufficienti a farlo condannare.

Ma il governo non usa soltanto i tribunali per violare in maniera aperta il presunto stato di diritto in vigore in Cina. Diverse fonti confermano infatti che la polizia dell’Henan ha costretto Wang Qunfeng – che cercava di ottenere giustizia dal governo centrale tramite il sistema delle petizioni – a vivere in un ospedale psichiatrico per diverse settimane. Qui è stata costretta ad assumere una terapia farmacologia per malati di mente nonostante sia del tutto sana.

La donna vuole giustizia per il padre, ex dirigente comunista, che non ha ricevuto i rimborsi medici previsti dalla legge: arrestata mentre cercava di presentare i suoi reclami nella capitale, è stata rimandata nella sua provincia. Qui la polizia ha scelto il manicomio, anche se i medici che l’hanno visitata non hanno riscontrato alcun problema: il referto, tuttavia, è stato consegnato alle autorità e non alla famiglia.

Wang è stata condannata già 3 volte ai lavori forzati ed è stata arrestata altre 10 volte: nel corso degli interrogatori e dei periodi di prigionia, è stata più volte picchiata dagli agenti di pubblica sicurezza. Nonostante sia un diritto iscritto in Costituzione, la pratica delle petizioni viene avversata in ogni modo dalle autorità locali, che temono di vedere svelate le loro pratiche illegali e contrarie al popolo.
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