27/11/2007, 00.00
MYANMAR
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Chiesa birmana: è ora il tempo di sperare in un cambiamento nel Paese

di Marta Allevato
AsiaNews raccoglie la testimonianza dei due presuli di Yangon e Mawlamyaing, che esprimono la loro “vicinanza”ai monaci buddisti scesi in piazza contro la giunta militare a settembre. I vescovi commentano gli sforzi internazionali per premere sul regime di Naypydaw: “Il governo sta prendendo tempo, ma il momento per agire è ora, o forse non ci sarà più occasione”. Il lavoro silenzioso della Chiesa a fianco di una popolazione stremata.
Roma (AsiaNews) – Anche se hanno preferito non scendere in piazza e marciare contro le politiche opprimenti della giunta militare, i leader religiosi cattolici in Myanmar si sentono “vicini con il cuore” ai monaci buddisti, fattisi portavoce delle sofferenze della popolazione. E avvertono la comunità internazionale: è ora il momento di agire in modo concreto per un cambiamento, altrimenti non sappiamo quando se ne presenterà di nuovo l’occasione. A parlare sono due vescovi birmani: mons. Raymond Po Ray di Mawlamyaing – nel sud del Paese - e mons. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, la ex capitale. AsiaNews ha incontrato i due prelati a Roma, dove hanno partecipato al II Congresso mondiale degli organismi ecclesiali per la giustizia e la pace, svoltosi dal 22 al 24 novembre.
 
Come è la situazione nel Paese oggi, a tre mesi dalle prime marce anti-governative?
MONS. PO RAY: “Dopo le manifestazioni di settembre la situazione nel Paese è ancora tesa: anche se apparentemente tutto è sotto controllo, la gente non è soddisfatta a causa delle difficoltà e della repressione usata dal governo su monaci e manifestanti. In tutti c’è sempre il ricordo del sangue versato dopo gli eventi del 1988, ma nei loro cuori vogliono un miglioramento del Paese, un cambiamento, ma hanno troppa paura per riuscire a parlare”.
MONS. BO: “La situazione è calma, ma i soldati sono dappertutto e controllano i monasteri e ogni passo della gente, che ora teme di fare una mossa sbagliata”.
 
Come si è manifestata la repressione delle proteste nelle vostre diocesi?
MONS. PO RAY: “A Mawlamyaing la repressione non è stata dura come a Yangon: le autorità sono subito intervenute per impedire dimostrazioni, hanno subito stretto i controlli in modo che non avvenissero episodi ‘sconvenienti’. I giovani monaci e gli studenti sono stati costretti ad allontanarsi dai loro monasteri e così l’intervento dei militari è stato meno duro”.
MONS. BO: “Quello a cui abbiamo assistito in settembre è stato un evento eccezionale i monaci sono scesi in piazza cercando di portare al governo il messaggio che la popolazione è insoddisfatta del loro operato. Si sono fatti portavoce della gente. Il governo, però, li ha picchiati e alcuni sono morti generando la rabbia dei birmani. Noi abbiamo detto ai nostri preti e religiosi di non scendere in piazza, perché siamo una minoranza e se vogliamo continuare a portare avanti il nostro lavoro qui dobbiamo essere cauti. Naturalmente i nostri fedeli sono stati liberi di unirsi alle proteste, ma anche noi con il cuore siamo stati vicini ai monaci buddisti. A Yangon da fine settembre ad ottobre, tutti i giorni alle 2 o alle 4 di mattina c’erano raid nei monasteri e chiunque si avvicinasse ai monaci per offrire loro acqua o cibo veniva arrestato”.
 
Che speranze ci sono che la comunità internazionale convinca la giunta ad aprire un reale dialogo con l’opposizione e a liberare i prigionieri politici?
MONS. BO: “La comunità internazionale ha reagito con dure condanne al comportamento dei militari. Come essere umano non sono molto fiducioso che queste pressioni porteranno ad un cambiamento, ma come cristiano ho l’obbligo della speranza. Effettivamente, rispetto al passato, questa volta la mobilitazione internazionale è stata maggiore. A me sembra che il governo stia prendendo tempo, per far tornare tutto come prima. Se la comunità internazionale non agisce in modo risoluto ora, non so quando si potrà ripresentare una nuova occasione.
La gente comune spera che, come in Iraq, gli Usa intervengano militarmente per liberare il Paese, ma non è possibile. La Cina mantiene un atteggiamento molto diplomatico: davanti alla repressione ha condannato la violenza, ma allo stesso tempo continua a dire che è una ‘questione interna’, in cui non si deve interferire. Ma non è così. Quello che succede in Myanmar non è una questione interna e deve essere una preoccupazione di tutti. I generali tendono ad eliminare ogni realtà che rappresenti ai loro occhi una minaccia al loro potere, alla loro posizione. Loro temono la sicurezza della loro posizione, temono di dover abbandonare e perdere i loro privilegi. Se il regime non si mostra più aperto, non ci sarà speranza per la popolazione. Bisogna raggiungere un compromesso ora, è adesso il tempo di dimostrare buona volontà”.
MONS. PO RAY: “La pressione internazionale sulla giunta in qualche modo contribuisce ad un miglioramento, ma allo stesso tempo la gente si rende conto che i militari portano avanti sempre la stessa strategia, sono fermi sulle loro posizioni. Le sanzioni internazionali, così come sono strutturate ora, non intaccano gli interessi reali della giunta, ma possono ripercuotersi solo sulla popolazione che è già poverissima. Vorremmo che le grandi potenze regionali alzassero di più la voce, agissero in modo concreto, non basta incoraggiare semplicemente al ‘dialogo’. La Cina è il Paese che ha più influenza sul governo birmano. Sentiamo che Cina e India potrebbero giocare un ruolo più positivo nell’incoraggiare cambiamenti e riforme nel nostro Paese. I desideri e i bisogni della gente crescono e sono grandi come le loro difficoltà. Questa volta ci sentiamo più sostenuti dall’esterno e ho speranza che le cose migliorino. Abbiamo bisogno di una leadership costruttiva, altrimenti la gente continuerà a soffrire. Al momento nessuno può fare niente in tempi brevi: i monaci hanno tentato di prendere la guida delle proteste come autorità della religione di maggioranza; sono stati picchiati e incarcerati, alcuni uccisi ma la loro iniziativa è stata un buon  esempio per la popolazione.
 
Che contributo possono dare i cattolici alla causa della pace nel Paese?
MONS. BO: “Sono convinto che in parte i fatti di settembre siano arrivati anche come frutto della lunga campagna di preghiera, che dal 2005 la Chiesa birmana in tutte le sue diocesi porta avanti ogni giorno per la pace".
MONS. PO RAY concorda: “La preghiera è l’unica cosa che possiamo offrire a chi lotta in prima persona per il rispetto dei diritti umani e la democrazia”. E spiega: “il contributo dei cattolici al Paese si concentra soprattutto nel campo sociale, dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria. Siamo vicini ai poveri. Essendo una minoranza, non possiamo parlare sempre apertamente, il governo è determinato a reprimere voci di dissenso e se vogliamo continuare ad esistere come comunità , dobbiamo mantenere un profilo basso e stare molto attenti”.
 
Come è la vita della Chiesa nelle vostre diocesi? Quali le difficoltà e i campi di impegno?
MONS. PO RAY: “Sono vescovo a Mawlamyaing da 14 anni; è una diocesi rurale e conta 7mila fedeli, 19 sacerdoti e 27 suore. La gente subisce intimidazioni politiche e militari ed è costretta a lavori al limite della schiavitù. Noi possiamo solo stare a fianco delle persone e dar loro coraggio, cerchiamo di offrire un minimo di istruzione e portiamo avanti programmi agricoli in modo da educare anche a nuove tecniche, che possano risultare più fruttuose. Non possiamo condurre nessuna istituzione scolastica, ma lavoriamo in modo da creare una consapevolezza tra la popolazione sulla necessità del lavoro e dell’impegno per la famiglia.
Il più grande problema è la situazione politica. La gente combatte per la sopravvivenza e questo è il loro pensiero principale; non prestano grande attenzione alla religione. Noi cerchiamo di portare i valori religiosi nella loro vita quotidiana, cerchiamo di far capire l’importanza della pratica”.
MONS. BO: “A Yangon i cattolici sono circa 80mila e 90 i sacerdoti. Svolgiamo programmi sociali e sanitari a cui collabora anche la gente locale. Formiamo gli insegnanti e offriamo sanità nelle zone più remote. Il problema è che dobbiamo tenere in ogni campo un profilo basso, se vogliamo continuare a lavorare. Per questo ho incoraggiato tutte le diocesi ad unirsi nella preghiera piuttosto che a scendere in piazza. Siamo una piccola minoranza e dobbiamo tenerlo presente”.
 
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