08/07/2025, 11.58
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Il Libano e il 'disarmo' delle due anime di Hezbollah

di Fady Noun

L’emissario del presidente Trump Tom Barrack, di origini libanesi, è a Beirut alla ricerca di una risposta alla richiesta di smobilitazione militare del Partito di Dio che si intreccia con il processo di consolidamento delle istituzioni del Paese. Fra i nodi irrisolti: partenza delle forze israeliane, cessazione degli attacchi, liberazione di prigionieri libanesi.

Beirut (AsiaNews) -  È per porre fine alla guerra tra Israele e Hezbollah, che il movimento sciita filo-iraniano ha iniziato in modo maldestro all’indomani dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa” del 7 ottobre 2023 con l’attacco allo Stato ebraico, che l’inviato statunitense Tom Barrack è atterrato ieri in Libano. L’alto emissario della Casa Bianca ha già incontrato in queste ore il capo dello Stato Joseph Aoun, il presidente della Camera Nabih Berri e il primo ministro Nawaf Abdallah Salim Salam. L’obiettivo della missione diplomatica è quello di raccogliere una risposta da parte dei vertici istituzionali e governativi di Beirut alla sua proposta di disarmo totale di Hezbollah, in conformità con la risoluzione 1701. Ad oggi il processo di resa delle armi del “Partito di Dio” è completo all’85% a sud del fiume Litani, ma permane una forte resistenza a continuare questo processo all suo interno, opposizione che risulta essere ancora forte.

La visita di Barrack coincide peraltro a livello temporale con l'incontro a Washington tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo la “guerra dei 12 giorni” tra lo Stato ebraico e la Repubblica islamica. I colloqui alla Casa Bianca si concentreranno in particolare sulla conclusione di un accordo di cessate il fuoco di 60 giorni a Gaza, ma anche sugli altri fronti in cui Israele è tuttora impegnato: in Libano, Yemen e Iran, dove il governo vorrebbe godere di una libertà di azione aerea simile a quella di cui beneficia in Libano, finora rifiutata dal presidente americano.

Una risposta misurata

Naturalmente Barrack, che è di origine libanese, ha diplomaticamente descritto il suo incontro con il presidente Jospeh Aoun come “soddisfacente”. “Ho ricevuto la risposta libanese alla proposta americana e siamo grati per la rapidità e il tono misurato di tale risposta” ha dichiarato l’inviato statunitense, aggiungendo di non aver avuto il tempo di leggere “per intero” gli emendamenti apportati dai vertici di Beirut al documento americano. Secondo Elie Fayad, caporedattore de L’Orient-Le Jour (OLJ), il documento è stato “ritoccato” dall’inviato Usa per renderlo “accettabile”. In una prima versione trapelata nella notte, il documento non menziona il disarmo “a nord del fiume Litani”, come chiaramente indicato nell’accordo di cessate il fuoco tra Israele ed Hezbollah del 27 novembre 2024.

Per Barrack, la vera sfida è ora rappresentata da una ripresa che deve iniziare “dall’interno del Libano”. “Se volete un cambiamento, iniziatelo voi stessi. Noi vi sosteniamo. Non spetta agli Stati Uniti dirvi cosa fare. Siamo qui solo per aiutarvi. Non stiamo imponendo nulla” ha aggiunto l’inviato di Trump. Ma se da un lato l’alto funzionario Usa ha ribadito che la comunità internazionale non farà il lavoro per il Libano, dall’altro ha avvertito che “la pazienza del presidente Donald Trump ha i suoi limiti”. Egli ha quindi affermato che Tel Aviv “vuole la pace con il Libano” e “non sta cercando di occupare il Paese”.

Disarmo e smantellamento

Ma di cosa sta parlando esattamente il Libano? Per il caporedattore del quotidiano del quotidiano francofono libanese “l’inviato speciale di Donald Trump è lì per discutere non solo del ‘disarmo’ del gruppo paramilitare, ma del suo ‘smantellamento’. Ovvero, della sua scomparsa come forza armata e della sua trasformazione - conclude Elie Fayad - in un partito politico come gli altri”.

Secondo Scarlett Haddad, analista vicina agli ambienti di Hezbollah, “un piano [per il disarmo] su questa linea è già stato proposto dagli americani. Esso prevede un processo di consegna delle armi a tappe e per regione. La prima fase inizia con Beirut e i sobborghi meridionali perché, agli occhi degli americani, l’obiettivo è smantellare, tra l’altro, le fabbriche di produzione di droni. La seconda fase riguarda la Bekaa e il nord; infine, la terza fase si concentra nella regione a nord del fiume Litani”.

Senza fare una dichiarazione chiara su questo piano, Hezbollah preferisce ripetere che “la questione delle sue armi dovrebbe essere risolta internamente”, aggiunge l’analista libanese. Citando un funzionario del Partito di Dio, l’analista prosegue spiegando che “questo argomento è stato discusso con il Capo di Stato, il quale ritiene che i missili a lungo raggio non siano più utili”. Tuttavia, Hezbollah avrebbe risposto a questa argomentazione dicendo che “anche se i funzionari del partito accettassero di consegnarli allo Stato, gli ambienti più popolari [base del movimento stesso] si rifiuterebbero”. In effetti, in occasione della commemorazione annuale del martirio dell’imam Hussein (Ashura), nella periferia meridionale è stata organizzata una mini parata improvvisata dagli irriducibili di Hezbollah. L’esercito è stato incaricato di identificare e arrestare i suoi membri, ma “non vi è motivo di temere scontri violenti o una ripresa della guerra su larga scala con Israele”, rassicurano gli ambienti del partito sciita.

Le due anime di Hezbollah

Fonti concordanti sostengono che il movimento sia in realtà diviso e che al suo interno vi sia un’ala dura pronta a prendere posizione contro qualsiasi tentativo di consegna delle armi, ritenendo che il rispetto del cessate il fuoco da parte di Hezbollah e di Israele debba essere “concomitante”. Al riguardo, i sostenitori di Hezbollah sostengono che: Israele non abbia rispettato i termini della tregua; sta ancora occupando parte del territorio libanese attraverso cinque punti di osservazione che vi ha installato; prende di mira e uccide quotidianamente i libanesi a sud e a nord del fiume Litani; bombarda i sobborghi meridionali e continua a detenere prigionieri libanesi.

I funzionari libanesi, guidati dal Capo dello Stato e dal primo ministro, non sono lontani dall’affermare una posizione del tutto analoga, ma al tempo stesso temono che la linea dura porti a disordini civili. Impazienti di vedere il successo delle riforme e la scomparsa delle milizie, i circoli dei partiti ostili all’egemonia iraniana criticano i leader per la loro “timidezza” nel trattare con Hezbollah e la loro “inclinazione a far fare il lavoro sporco a qualcun altro”. Secondo ambienti vicini a Hezbollah, il tono relativamente conciliante di Thomas Barrack è dovuto non solo alla sua abilità diplomatica, ma anche all’attuale equilibrio di potere. Secondo questi ambienti, oggigiorno la politica statunitense ritiene che ciò che si può ottenere in modo pacifico sia “preferibile” a ciò che si può ottenere con la guerra, anche se ci vuole più tempo.

Pronti a negoziare

Tuttavia, secondo un rapporto della Reuters Hezbollah è “pronto a negoziare un ritiro israeliano in cambio di una riduzione dei suoi armamenti”. In particolare, starebbe riconsiderando il proprio arsenale, riducendo eventualmente i missili e i droni in cambio di un ritiro israeliano dalle zone di confine contese e di una sospensione degli attacchi. Questa tendenza “pacifista” sarebbe accompagnata da alcune richieste di natura politica. Hezbollah chiederebbe un prezzo per la consegna delle armi: la “conversione” del suo potere militare in influenza istituzionale, attraverso posizioni chiave nell’apparato statale e nell’amministrazione. In questo modo potrebbe poi rivendicare la carica di vice-presidente della Repubblica.

 

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