20/02/2024, 11.00
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Da Gaza a Teheran, il ‘principe della guerra’ bin Salman uomo di ‘stabilità’

di Dario Salvi

L’attenzione della comunità internazionale su Rafah, dove Israele è pronta all’offensiva di terra. Egitto. Studioso giordano Amer Al Sabaileh: dalla causa palestinese si è passati al jihad globale. L’inconsistenza di Hamas a livello politico e i movimenti sciiti diretti dall’Iran. Oltre gli “Accordi di Abramo”, i sauditi come mediatori. 

Milano (AsiaNews) - La debolezza dell’amministrazione americana; le manovre da dietro le quinte dell’Iran che sfrutta gruppi come gli Houthi in Yemen e nel mar Rosso per alimentare la tensione; i molti focolai di violenza e, di guerra, che almeno sinora “nessuno ha voluto trasformare in un conflitto regionale. O globale”. E la consapevolezza che in una fase in cui la causa palestinese ha perso significato nel mondo musulmano sostituita dal jihad globale, la sola “speranza” concreta per Gaza (e la stessa Cisgiordania) è Riyadh, unica ad avere l’autorità - e l’interesse - a lavorare per la pace in nome “della stabilità”. È quanto racconta ad AsiaNews il professore e analista geopolitico giordano Amer Al Sabaileh, esperto di questioni mediorientali, sicurezza internazionale e policy dei processi di pace nelle aree di crisi. “Mohammad bin Salman - spiega - è diventato crown prince come uomo di guerra, mentre ora [in attesa dell’ascesa al trono] vuole diventare il re della pace e dello sviluppo economico, per questo è interessato ad appianare i conflitti. Un cambio di ideologia” in nome della stabilità, ma al tempo stesso, una “maturità sul piano della mentalità e della leadership”. 

Israele e la seconda Nakba

Su conflitto fra Israele e Hamas nella Striscia, per lo studioso “stiamo assistendo a un piano graduale di Israele di cambiare la demografia di Gaza”, laddove è già stato assimilato come “normale” lo spostamento “di una massa da nord fino a Khan Younis prima, e ora a Rafah”. Ed è proprio nell’area di confine con l’Egitto che si concentra l’attenzione della comunità internazionale, con lo Stato ebraico che annuncia l’operazione di terra se non verranno rilasciato gli ostaggi entro il Ramadan, il mese di digiuno e preghiera islamico che inizia il 10 marzo. “Questo significa che stanno spingendo la massa oltre i confini” creando una situazione umanitaria che l’Onu e gli organismi internazionali definiscono disastrosa. “Gli israeliani - prosegue - giocano la carta del tempo, da sempre. Più il tempo passa, più la soluzione al problema diventa pratica” e l’unica alternativa è “trovare il modo di convivere” con lo status quo. In quest’ottica il progressivo spostamento della guerra, e della popolazione di Gaza, verso sud è un modo per “mettere pressione ai confini dell’Egitto” e “la comunità internazionale sarà chiamata a gestire il problema”.

La battaglia di Rafah inaugura una “nuova fase” e “questo sta avvenendo anche in Cisgiordania: creare un’atmosfera ostile e negativa - afferma - per costringere tanti a uscire, in quello che definisco il ‘transfert volontario’. Poi vi è la questione dei profughi palestinesi e del taglio dei fondi Unrwa [l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente], che è più sentito in Libano, ma con una crisi umanitaria così profonda come quella in atto” le priorità, e le risorse dei governi mondiali sono destinate “a cambiare”. Il governo israeliano, sottolinea, ha lanciato la guerra a Gaza “per rassicurare il Paese sull’eliminazione di Hamas, ma il vero obiettivo è demografico” e si collega anche “alla politica sulle colonie”, gli insediamenti e gli avamposti, nella West Bank: “Si vuole creare una situazione nuova” con un esodo massiccio di palestinesi che rappresenterebbe, per molti, la tanto temuta seconda Nakba. 

Da causa palestinese a jihad globale

In qualità di esperto Al Sabaileh ha elaborato numerosi studi strategici approfondendo diverse aree di guerra e il terrorismo, dal Nord Africa al Medio oriente. Egli ricopre la carica di direttore generale dell’Istituto di ricerca sui rischi geopolitici “Triageduepuntozero” ed è presidente del Centro Studi - Security Languages - Council for counter terrorism studies. “Gli attacchi dei coloni ebraici - prosegue - sono il segnale di una componente religiosa e confessionale nel panorama della guerra. Dall’altro, per molti oggi Hamas è l’unica componente capace di rappresentatività nel mondo palestinese, caratterizzata da una evidente matrice islamica. Come del resto avviene in Iraq, dove le milizie sono religiose sciite” e, in molti casi, hanno maggiore forza “anche dell’esercito regolare”. Oggi a dominare la scena in Medio oriente non sono più i gruppi o movimenti secolari come avveniva negli anni ‘70, con Fatah in primis, ma vi è una marcata “connotazione religiosa, una dottrina che emerge fin dagli slogan”. In molti casi dietro a queste milizie troviamo l’Iran, l’identità religiosa della Repubblica islamica sciita che “sponsorizza tantissime milizie”, poi vi sono gruppi sunniti ma “non nessuna di natura secolare”. 

Nei decenni, sottolinea Al Sabaileh, anche il concetto di jihad si è evoluto passando “dalla liberazione della Palestina a una lotta globale” che vale da Gaza all’Afghanistan, e la stessa “liberazione della Palestina oggi si inserisce in un quadro più generale”. Hamas, aggiunge, sembra “giocare con il concetto di riconoscimento di uno Stato” ma a livello politico “non esiste, perché influenzato” dal principio superiore di “jihad globale”. “La spaccatura di Hamas, la sua incapacità di prendere decisioni reali sul piano politico o di trovare una linea condivisa sugli ostaggi - spiega - è il segno di una mancanza di rappresentatività”. “Al momento sono in atto diversi focolai di tensione dalla Striscia al mar Rosso con gli attacchi Houthi [che non hanno nessuna autonomia di movimento dall’Iran ed Hezbollah e zero capacità militare senza i loro padrini], ma finora gli attori in gioco “hanno evitato di dar vita a un unico, grande incendio”. Nessuno vuole davvero “un confronto globale”, ma è evidente “una escalation sempre più aggressiva e ostile” che rischia di portare però a una “situazione generale fuori controllo”. 

Riyadh e gli Accordi di Abramo

In un quadro di profonda incertezza, con l’attacco di terra a Rafah alle porte e un netto rifiuto, ribadito anche in questi giorni dal premier israeliano Benjamin Netanyahu di una soluzione a due Stati, per lo studioso giordano “l’unica speranza oggi è Riyadh”. Il regno è uno dei pochi attori a operare nella direzione della stabilità e la stessa Repubblica islamica “pur non volendo davvero la pace, non si può permettere un fronte di crisi con i sauditi”. In questi ultimi anni Mbs ha puntato sulla stabilità, sullo sviluppo economico oltre il petrolio, rafforzando l’industria del divertimento, il turismo, le energie rinnovabili sotto l’egida della “Vision 2030”. E sugli “Accordi di Abramo” che hanno permesso la normalizzazione dei rapporti fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) - e una minima parte del mondo arabo e musulmano -, essi “hanno ancora un valore, ma sono più una questione di marketing” che una svolta reale di natura geopolitica. Un piano sponsorizzato dall’ex presidente Usa Donald Trump per legittimare i rapporti con gli Emirati “e far costruire un tempio ad Abu Dhabi, ma con l’Arabia Saudita gli ebrei hanno profondi legami storici e non servono gli ‘Accordi’ per instaurare relazioni”. “Basterebbe - prosegue - parlare di un pellegrinaggio ideale di Abramo dalla Mecca a Gerusalemme per dare valore e radici storiche alle relazioni fra i due Paesi”, secondo un progetto “meno idealistico ma più concreto” rispetto a quello di Trump. Difatti, oggi, Washington è più orientata a parlare di “pace regionale” più che di ripresa degli “Accordi di Abramo” con Riyadh come meta finale, ma perché si possa concretizzare “servono concessioni ai palestinesi”; al contempo, avverte, “non si può chiedere [a Israele] di tornare ai confini del 1967, bisogna ripensare un accordo sapendo che qualcosa andrà loro riconosciuto”. In questa prospettiva, il mediatore più credibile è Riyadh, anche e soprattutto per la “debolezza” di un’amministrazione americana che sta andando a conclusione del mandato con elezioni presidenziali alle porte: “Con tutti questi fronti aperti - conclude lo studioso - eventuali concessioni è più facile che verranno fatte [da tutti gli attori in gioco] al prossimo inquilino della Casa Bianca mentre, per le prossime settimane, è più probabile la prospettiva di un’escalation rispetto alla diplomazia”. 

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