13/08/2022, 10.18
MONDO RUSSO
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Il capitalismo infantile della Putinomics

di Stefano Caprio

In Russia inizia a sentirsi la morsa della crisi economica dovuta alle sanzioni occidentali. Putin e i suoi sodali hanno de facto privatizzato tutto il Paese, e lo considerano una loro proprietà. Il peso delle trasformazioni ricade sulla gran parte della popolazione, privata di qualunque voce in capitolo.

Milano (AsiaNews) – Come avevano previsto molti economisti, nel mese di agosto si inizia a sentire in Russia la morsa della crisi economica dovuta alle sanzioni occidentali. Il problema è che non sta andando in crisi “l’economia di Putin”, ma quella della gente comune, o meglio di quel poco che resta del ceto medio russo che dagli anni Novanta aveva cercato con fatica di raggiungere un tenore di vita simile a quello delle società occidentali.

La prima ondata di liberalizzazioni e “capitalismo selvaggio” si era sviluppata nel primo quinquennio eltsiniano, dal 1992 al 1997, per poi crollare nella frana dei castelli finanziari del 1998, che portarono alla svalutazione del rublo e al passaggio verso la gestione “verticale” del potere politico ed economico, realizzata poi da Putin negli anni Duemila con la cacciata degli oligarchi non sottomessi. Uno di loro, Mikhail Khodorkovskij, ha dovuto scontare un decennio di lager siberiano per aver cercato di difendere i principi del liberalismo.

Gli altri padroni delle grandi compagnie energetiche e di sfruttamento delle risorse naturali, l’unico vero motore dell’economia russa, si sono allineati nel servizio “patriottico” imposto dal Cremlino, non senza goderne i privilegi di casta, di cui lo stesso Putin e i suoi familiari sono tra i maggiori beneficiari. Il resto del commercio interno ha cercato di organizzarsi all’ombra della “pax oligarchica”, sfruttando le pur limitate aperture agli scambi internazionali e offrendo beni di consumo di ogni genere per attirare quei 30-40 milioni di cittadini (meno di un terzo della popolazione) che si erano affrancati dalla passività socialista di tradizione sovietica per vivere in maniera più moderna e indipendente.

Vladislav Inozemtsev, economista e direttore del Centro per le ricerche sulla società post-industriale di Mosca, è uno dei punti di riferimento della flebile opposizione liberale al regime putiniano. Sul Moscow Times ha espresso le sue considerazioni, secondo cui “Putin e i suoi sodali hanno de facto privatizzato tutto il Paese, e lo considerano a tutti gli effetti una loro proprietà; il sistema finanziario si regge sulle corporazioni statali, il potere della legge è limitato dalle considerazioni e dagli interessi dei capi, e la Russia ha ormai perso ogni possibilità di liberarsi dalla dipendenza dalle materie prime, destinata a diventare un satellite della Cina”.

Quanto sta accadendo ora non sembra affatto la catastrofe della “Putinomics”, ma il suo definitivo consolidamento. La rottura delle relazioni con il mondo esterno, la suddivisione degli investitori tra i “non amichevoli”, i nemici e i pochi accettabili, il rifiuto di assolvere alla maggior parte degli obblighi internazionali, la confisca di buona parte delle proprietà straniere in patria, tutto questo è il trionfo del “business a modo nostro” di cui lo stesso Putin ha sempre mostrato di andare fiero. A questo si deve aggiungere l’appropriazione statale dei diritti d’autore e delle licenze, il diritto all’importazione illegale e “parallela” rispetto alle sanzioni e molto altro, che fanno delle compagnie statali, e in primis quella militare, i principali beneficiari della svolta imposta dal regime sanzionatorio.

Il colpo più catastrofico di questi cambiamenti è caduto sugli affari comuni tra ditte russe e straniere, che in Russia si erano fatti largo con molta fatica, a partire dalle joint-venture della fine del periodo di Gorbačëv, ma che in un modo o nell’altro erano riusciti a trasformare la cultura imprenditoriale russa, e anche le abitudini dei consumatori. Il mercato delle automobili e delle produzioni di assemblaggio, e negli ultimi anni lo scambio di beni tramite internet e la digitalizzazione, la diffusione dei servizi fino alla produzione di fertilizzanti e metalli, erano sostenuti anche da un’ampia sfera di comunicazione di massa, pubblicitaria e giornalistica, che oggi è ormai completamente silenziata e controllata, o ridotta a pura propaganda.

I quadri più qualificati delle attività legate all’informatica, agli affari free-lance e all’iniziativa privata stanno lasciando la Russia con flusso crescente, suscitando nelle alte sfere un moto di soddisfazione per la “fuga dei traditori”, come è stata definita da Putin. I vertici del regime garantiscono che “ciò non influirà sullo sviluppo della nostra economia”, intesa secondo gli schemi infantili e paternalistici con cui la si intende governare, tra lo spirito dell’assistenzialismo sovietico e il dirigismo neocomunista e oligarchico di tipo cinese.

A soffrire della crisi economica non saranno i gerarchi del regime e la classe dei magnati a esso collegati, magari attraverso una fase di riassestamento e nuova divisione della torta, testimoniato dalla scomparsa sempre più improvvisa e frequente di alcuni pezzi grossi per strani suicidi, incidenti o avvelenamenti. Il peso delle trasformazioni ricade sulla gran parte della popolazione, ormai privata di qualunque voce in capitolo, dopo la sistematica repressione di ogni forma di opposizione negli ultimi due anni, come è ormai evidente dovuta non alla necessità di consolidare in eterno il sistema, ma di prepararlo al definitivo isolamento in seguito alla guerra metafisica col mondo intero.

Non saranno le sanzioni economiche a scalzare Putin dal Cremlino, e neanche le sconfitte militari o le rivoluzioni popolari, oggi entrambe assai improbabili. La storia va verso una nuova fase, e sarà necessario immaginare un mondo nuovo, a Oriente e Occidente, che riesca a ricominciare dopo le guerre e l’innalzamento delle nuove barriere. Non si vedono profeti in grado di descrivere questo mondo del futuro dopo l’Apocalisse ucraina, semmai finora sono risuonati solo annunci di sventura, come la visione distopica della “Giornata dell’Opričnik”, un romanzo del 2006 di Vladimir Sorokin, che già allora immaginava la Russia nuovamente chiusa ermeticamente agli influssi esterni, come ora si sta effettivamente realizzando.

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