10/01/2024, 08.43
ASIA CENTRALE
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Il futuro della democrazia in Asia Centrale

di Vladimir Rozanskij

L'analisi della studiosa Anna Matveeva sul trend autoritario in forte crescita in tutti e cinque i Paesi della regione: dal "gennaio di sangue" del 2022 in Kazakistan alle limitazioni sempre più dure alla libertà di informazione in Kirghizistan. Più che le modifiche al sistema politico, a imporsi sono le varianti di “modernizzazione dell’economia” dei giganti asiatici.

Astana (AsiaNews) - Nel suo bilancio su quanto avvenuto nel 2023, il sito Cabar.asia ha raccolto i commenti di un’esperta di politica e sicurezza nello spazio post-sovietico, la ricercatrice del Collegio Reale di Londra Anna Matveeva, in merito alle tendenze dei regimi autoritari dell’Asia centrale e ai reciproci influssi tra loro nel periodo post-pandemico e di fronte alle guerre in corso.

Iniziando dal Kirghizistan, sembra che ci siano poche speranze di un futuro democratico della regione: dopo il 2020, il consolidamento del potere del presidente Sadyr Žaparov ha assunto forme più repressive anche nelle nuove norme della legislazione, con diverse azioni di forza anche al di fuori dei confini giuridici, la contrapposizione alla società civile e ai media indipendenti. Anche il Tagikistan dopo le rivolte nel Gorno-Badakšan, e l’Uzbekistan dopo quelle nel Karakalpakstan, non lasciano ben sperare nel progresso in questo senso.

Il Kazakistan sembrava essere il più convinto nel passaggio dal regime di Nursultan Nazarbaev alle progressive aperture di Kasym-Žomart Tokaev, ma gli avvenimenti del “gennaio di sangue” del 2022 hanno brutalmente interrotto questo percorso di evoluzione democratica. Matveeva osserva che questi Paesi sono di solito molto refrattari agli influssi esterni, essendosi rinserrati in regimi molto autoreferenziali dopo la fine dell’Urss.

Il problema, fa notare l’esperta, è anche che “il trend autoritario sta crescendo in tutto il mondo, e la democratizzazione degli anni ’90 è passata ormai in secondo piano”. Le tendenze autoritarie non significano necessariamente l’instaurazione di vere e proprie dittature, ma una “varietà di modelli finalizzati al controllo totale del potere da parte di un ristretto gruppo dirigente”. Se fino a qualche anno fa queste varianti erano considerate “deviazioni dal concetto occidentale di democrazia”, oggi sono ammesse come “vie locali di sviluppo democratico”, e i Paesi dell’Asia centrale rivendicano questo tipo di autonomia.

Più che le modifiche al sistema politico, si sono imposte le varianti di “modernizzazione dell’economia” dei giganti asiatici come la Cina, Singapore, in parte anche la Corea del sud o il Giappone, dove è lo Stato a guidare la transizione economica in nome degli “interessi strategici nazionali” e delle “esigenze dei cittadini”, evitando di imporre soltanto interessi di caste al potere, comunque sempre molto radicate, come dimostra la difficoltà nel Kazakistan nel superare definitivamente il controllo della “famiglia di Nazarbaev” su tutta l’economia.

In questa ridefinizione per via economica, i cinque Paesi centrasiatici si differenziano molto tra di loro. Il Kazakistan può contare su maggiori risorse e infrastrutture, che gli permettono di non dipendere troppo dal sistema fiscale, e l’eredità di questo trentennio, pur sotto il controllo del regime vigente, permette una maggiore diversificazione nella partecipazione all’intero sistema politico e sociale. Il Tagikistan è invece sul fondo del gruppo per il tenore di vita sulla soglia della povertà, mentre il Turkmenistan vede un eccesso di distanza tra lo splendore della classe dirigente e la povertà della massa della popolazione.

L’Uzbekistan è descritto da Matveeva come il “campione dell’ipocrisia”, in cui il potere rappresentato da Šavkat Mirziyoyev cerca di ogni modo di “mostrarsi aperto al confronto con la società intera, di tenere in alta considerazione tutte le critiche”, volendo cancellare la memoria della fredda burocrazia sovietica. Una dinamica simile è in atto anche in Kirghizistan, con una forte contraddizione tra le aperture al dialogo con tutti e le limitazioni sempre più stringenti alla libertà di informazione.

Il Kirghizistan negli anni seguiti alla fine dell’Urss ha rappresentato il modello che l’esperta russa di Londra chiama “il sistema dell’irresponsabilità collettiva”, in cui non si capisce chi risponde di che cosa. Ora anche a Biškek ci si allinea all’ambiguo autoritarismo di classi dirigenti basate sull’idea del “controllo democratico”, in forme diverse e legate alla “cultura e tradizioni nazionali”, grigie e asfittiche come in Tagikistan, “moderniste” in Uzbekistan o particolarmente folcloristiche in Turkmenistan. I kirghisi stanno mostrando un esempio di questo strano sviluppo più esteriore che reale, con la grande discussione sul numero e la forma dei raggi del sole sulla bandiera nazionale, più diritti o più obliqui a seconda dei gusti della “nuova democrazia”.

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