12/12/2023, 11.12
PORTA D’ORIENTE
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Io, rabbino sfuggito al massacro di Hamas, mi batto per la pace fra israeliani e palestinesi

di Dario Salvi

In questa intervista ad AsiaNews Avi Dabush, direttore esecutivo di Rabbis for Human Rights, ripercorre le ore drammatiche dell’assalto dei terroristi al kibbutz di Nirim. Nonostante la paura e le violenze, egli considera primaria la liberazione degli ostaggi e ha avviato nuovi programmi di aiuto in Cisgiordania. "È il momento di lavorare per i diritti e la giustizia". A Gaza colpita anche la parrocchia della Sacra Famiglia: distrutto un serbatoio di acqua e pannelli solari. 

Milano (AsiaNews) - La “paura” per la famiglia, i bambini, trascorrendo “oltre otto ore” nascosto “in una stanza-rifugio” mentre tutto attorno i terroristi di Hamas assaltavano il kibbutz di Nirim, lui stesso “aggrappato alla maniglia della porta” come ultima, ed estrema, forma di difesa. Avi Dabush, direttore esecutivo di Rabbis for Human Rights, organizzazione che opera per la pace e la convivenza aiutando in prima persona le popolazioni palestinesi vittime di vessazioni e violenze in Cisgiordania, ricorda in modo nitido l’attacco del 7 ottobre scorso. In questa intervista ad AsiaNews egli rinnova l’appello - e l’impegno - per la liberazione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia che considera prioritario, mentre definisce “preoccupante” l’allargarsi della guerra “a Khan Yunis, dove sappiamo che sono detenuti” altri prigionieri. In una fase in cui il governo israeliano preme per la guerra, con un bilancio di vittime che ha superato quota 18mila a Gaza in larga maggioranza civili fra cui donne e bambini, egli parla di “momento chiave” per lavorare sui “diritti umani” e “spazio e opportunità” per tutti in Terra Santa. Un conflitto sanguinoso che non risparmia nemmeno la parrocchia latina della Sacra Famiglia, che lo scorso fine settimana è stata colpita da schegge causate da attacchi dell’esercito israeliano che hanno causato la distruzione di serbatoi di acqua e di pannelli solari presenti sui tetti, oltre ad alcune auto e parti del complesso.
Di seguito, l’intervista ad Avi Dabush:

A oltre due mesi dall’attacco terrorista di Hamas al cuore di Israele, che cosa ricorda di quei momenti drammatici? 
Quello che ricordo più di tutto è l’orrore per quanto è accaduto, la paura per i bambini, per la sorte della mia famiglia. Siamo rimasti nascosti per oltre otto ore in una stanza [allestita a] rifugio completamente soli, non avevamo la difesa e il sostegno dell’esercito, tanto che il nostro kibbutz, di Nirim, è stato preso d’assalto e invaso dai terroristi. Da persona che lavora da tempo nel settore dei diritti umani, guardo all’indietro a quanto successo, ripenso a quegli eventi come a una terribile violazione dei diritti umani, ad un qualcosa che non dovrà mai più accadere a nessuno e in nessun luogo al mondo. 

Qual è l’immagine più vivida che le si è impressa nella memoria?
L’aver trattenuto con forza, per ore, la maniglia della porta del nostro rifugio, ascoltando i terroristi fuori. Non potrò mai dimenticarlo, sarà per sempre parte di me. 

I giorni di tregua, con scambio di prigionieri, avevano acceso una fiammella di speranza. Si può pensare ancora a una trattativa che porti a una de-escalation del conflitto?
Al momento mi sto occupando del sostegno e della risposta del kibbutz per gli ostaggi [nelle mani di Hamas] a Gaza. Sono favorevole a un cessate il fuoco per il loro ritorno. Questo è un obiettivo importante e primario per me. Abbiamo a che fare con un evento estremamente complesso, o una serie di eventi, con sofferenze e violazioni ai diritti umani in molti contesti diversi fra loro e fra comunità diverse. Per me il ritorno degli ostaggi, dei miei vicini e amici, è di primaria importanza.

Quali sentimenti ha provato vedendo la liberazione di una parte di loro? E vi sono ancora margini di speranza per gli altri?
Ho provato una gioia enorme, a livello personale, per la famiglia e per l’intera comunità guardando al ritorno degli ostaggi. Di cinque che sono stati prelevati dal kibbutz di Nirim, tre sono stati liberati ed è stato un momento cruciale per tutti noi. Ma a questo elemento di gioia si accompagna il timore crescente per la sorte di quanti restano ancora prigionieri. Abbiamo iniziato a raccogliere informazioni sulle loro condizioni e siamo profondamente preoccupati per quanti sono ancora nelle mani dei loro rapitori. Vedere l’operazione di guerra allargarsi fino a coinvolgere Khan Yunis, dove sappiamo che sono detenuti gli ostaggi, è davvero preoccupante.

Da un lato l’orrore del 7 ottobre, l’attacco di Hamas, dall’altro i bombardamenti e la guerra a Gaza, che miete vittime innocenti fra i civili. Sono due facce della stessa medaglia?
Dal punto di vista dei diritti umani, qualsiasi danno o ferita viene inferta alla popolazione civile deve essere denunciata con forza. Questo valore non differisce da popolazione a popolazione, qui si parla di diritti umani. Siamo fin troppo consapevoli delle conseguenze che derivano dalla guerra, per questo dobbiamo aggrapparci ad un medesimo valore comune, che è la vita umana. Un valore che, in questo momento, è gravemente minacciato. 

Rabbi, in che modo è possibile superare la logica dello scontro, della vendetta, del muro contro muro fra le parti? Il timore è di una ulteriore escalation anche in Cisgiordania…
In definitiva, l’unica soluzione possibile è quella diplomatica. Deve esserci un accordo formale tra Israele, le entità palestinesi, i leader regionali, gli Stati Uniti e la comunità internazionale. È chiaro che abbiamo raggiunto un punto morto nella politica di gestione del conflitto e che il pensiero politico deve cambiare. Con il coinvolgimento della comunità internazionale abbiamo più possibilità di creare il clima Adatto per trovare una soluzione.

In questo quadro di guerra e violenze, come si può proseguire la lotta per i diritti umani?
La nostra organizzazione, Rabbis for Human Rights, è stata fondata oltre 30 anni fa durante la prima Intifada. Quello era un periodo in cui la società israeliana stava prendendo coscienza dell’occupazione e della storia palestinese. Io stesso ho trascorso molto tempo nelle città palestinesi, Gaza era il nostro punto di riferimento principale quando sono cresciuto ad Ashkelon, ma anche allora non eravamo consapevoli fino in fondo della situazione. La nostra organizzazione è stata fondata durante il conflitto e da allora abbiamo sperimentato molte forme di conflitto ricorrenti. E questo è il momento chiave per un lavoro sui diritti umani, proprio in tempo di conflitto è importante proseguire e approfondire l’opera. Speriamo, preghiamo e lavoriamo affinché questo terribile ciclo di conflitto sia l’ultimo e che si possa arrivare a capire che l’unico futuro qui [in Terra Santa] è quello in cui vi siano spazio, diritti e opportunità per tutti.

Invece, oggi, assistiamo a quello che molti commentatori definiscono “la guerra più sanguinosa” degli ultimi 50 anni e a prevalere sono gli opposti estremismi. Fra Hamas e il governo di ultra-destra in Israele, dove possiamo trovare uno spazio di dialogo?
Sappiamo dalla storia che gli estremisti, seppur su fronti opposti e da parti diverse, si rafforzano a vicenda. Essi creano le due facce della medaglia. Non è una coincidenza che questo conflitto arrivi nel momento in cui al governo in Israele vi sia quello più estremo che io abbia mai conosciuto. E proprio per questo motivo dobbiamo respingere con ancor più forza l’estremismo. Prima dell’inizio della guerra, io stesso organizzavo e dirigevo le manifestazioni settimanali contro il governo a BeerSheba [nell’ambito delle proteste di massa contro la controversa riforma della giustizia voluta dal premier Benjamin Netanyahu, ndr]. Dobbiamo creare un nuovo paradigma in cui il dialogo e la collaborazione siano premiati, attraverso questi valori possiamo respingere l’estremismo.

Lei ha citato Netanyahu: quali sono le responsabilità politiche del premier in questo scenario? 
Rispondo premettendo che non sono un commentatore politico, il nostro ruolo è quello di aiutare a progettare soluzioni, non profetizzare. Tuttavia, la mia sensazione è che Netanyahu abbia perso il diritto di sedersi al tavolo della leadership. La leadership che dobbiamo sviluppare deve essere seria e responsabile, dovrà avere valori diversi e una nuova agenda per capire come risolvere il conflitto.

Gli attacchi in Cisgiordania, le tensioni fra palestinesi e coloni, il tentativo di appropriarsi di nuove terre ha lasciato a lungo nel dimenticatoio la questione di Gaza. Anche questo ha favorito l’escalation degli eventi, a partire dall’attacco di Hamas del 7 ottobre?
Dall’inizio della guerra abbiamo assistito a una grave escalation della violenza dei coloni in Cisgiordania. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha) riferisce di un numero di attacchi tre volte superiore, e noi lo stiamo vedendo con certezza sul campo. A partire dalle violenze sugli agricoltori: in questi giorni ho visto un filmato di un nostro coordinatore palestinesi, in cui si vedono coloni [ebraici] raccogliere olive da alberi di proprietà palestinese; e ancora, gli orrendi attacchi a mano armata che hanno causato la morte di persone innocenti.
Abbiamo lanciato appelli a tutti gli organismi possibili, dall’esercito al governo israeliano, fino all’assise internazionale, affinché si reprima la violenza e si ponga fine a questo terrorismo. Rabbis for Human Rights si basa sul pensiero e sui valori ebraici, per questo chiamiamo la violenza dei coloni “terrorismo ebraico”, basato su un’ideologia odiosa e molto lontana dall’ebraismo di pace e giustizia che noi sposiamo.
Stiamo inoltre assistendo a una crisi economica in Cisgiordania, con centinaia di migliaia di persone che non possono continuare a svolgere le loro professioni in Israele e non hanno alcun reddito da oltre due mesi. La raccolta delle olive, per la quale di solito forniamo una presenza protettiva, è stata molto ridotta dall’esercito e dal terrorismo [dei coloni ebraici], e tutti i contadini palestinesi con cui siamo in contatto non hanno potuto raggiungere molte delle aree in cui si trovano i loro alberi. I prezzi stanno aumentando a causa della mancanza di libertà di movimento, della catena di approvvigionamento e di altro ancora. In questo periodo abbiamo avviato un nuovo progetto umanitario, consegnando pacchi di cibo e generi di prima necessità alle comunità più vulnerabili.

Rabbi Avi Dabush, un’ultima domanda personale: come vive questa fase chi, come lei, molto si è speso in questi anni per il dialogo, la pace, la riconciliazione? 
Sono assolutamente preoccupato! Sono tempi molto difficili per chiunque creda nei diritti umani, nella dignità e nella pace. È chiaro che dobbiamo essere attivi in questo momento, dobbiamo “pregare con i piedi” e modellare azioni che parlano più delle parole. È per questo che stiamo lavorando più intensamente in Cisgiordania. Quando andiamo a proteggere i contadini palestinesi durante la raccolta delle olive, promuoviamo la pace. Ora dobbiamo creare più occasioni di partenariato e coalizzare tutti coloro i quali condividono questi valori di pace diritti umani e giustizia. Il rafforzamento di queste coalizioni, tra ebrei e palestinesi, creerà un’alternativa e porterà le società ad adottare i valori necessari [in una prospettiva di pace e convivenza].

 

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