14/06/2025, 08.31
MONDO RUSSO
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La nascita della Chiesa e della Federazione Russa

di Stefano Caprio

La Pentecoste e il "Giorno della Russia" caduti a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro. "Dove sei, mia Chiesa?" si è chiesto amaramente p. Andrej Misjuk invocando il ritorno a una fede che "non sopporti la menzogna, non benedica quelli che è impossibile benedire, e di nuovo s’incammini sulla via che da Gerusalemme conduce verso l’Eterno”. Mentre nella sua nuova "Favola" Vladimir Sorokin racconta il mondo post-apocalittico.

Domenica scorsa tutti i cristiani cattolici e ortodossi hanno festeggiato la Pentecoste, che nella tradizione orientale si unisce alla celebrazione della Santissima Trinità, e che in Russia chiamano “il compleanno della Chiesa”, nata con il primo annuncio del Vangelo dopo la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli a Gerusalemme. Qualche giorno dopo, il 12 giugno, si è ricordato il Den Rossii, il “Giorno della Russia”, che risale alla data del 1990, quando il Congresso dei deputati della Repubblica socialista sovietica della Russia, presieduta da Boris Eltsin, approvò la Dichiarazione di sovranità all’interno dell’Urss, destinata a cadere l’anno successivo.

Nel testo eltsiniano si fissava il principio della divisione dei poteri tra governo sovietico e repubblicano, i pari diritti di tutti i cittadini e delle associazioni politiche, e si apriva la strada per l’ampliamento dei diritti delle regioni. Anche se non si poneva l’obiettivo di uscire dall’Unione Sovietica, ma quello di “creare uno Stato democratico di diritto nell’ambito di una Unione rinnovata”, questa prima proclamazione di sovranità tra le quindici repubbliche sovietiche divenne un fortissimo stimolo all’autodeterminazione per tutte le altre, e per gli stessi cittadini della Russia. Per alcuni anni la festa rimase come “Giorno dell’indipendenza della Russia”, associandosi al crollo dell’Urss, che suscitava drammi interiori a molte persone, finché nel 1998 lo stesso Eltsin cambiò il titolo in “Giorno della Russia”, poi esaltato nella Russia di Vladimir Putin come festa dell’identità nazionale, più che della democrazia o dell’indipendenza.

E oggi, nel contesto della “guerra per l’identità” intrapresa dalla Russia in Ucraina e nei confronti del mondo intero, i cittadini russi si chiedono che cosa è diventato veramente questo Paese, da repubblica sovietica trasformatosi in federazione, da centro di un mondo perduto a scheggia impazzita di un mondo frantumato. Se lo chiedono sia i favorevoli alla guerra, per imporre a tutti la nuova visione del “mondo russo”, sia i pochi contrari che hanno il coraggio di esprimersi, e i tanti che sono finiti in lager o all’estero. La domanda diventa ancora più misteriosa e drammatica se ci si chiede che cos’è oggi la Chiesa ortodossa russa: una semplice struttura di servizio del potere vigente, o una “madre” del popolo credente?

Se lo chiede il sacerdote Andrej Misjuk, 43 anni, del clero dell’eparchia di Saratov nella Russia meridionale, che a settembre del 2022 ha chiesto di essere messo a riposo e interviene su vari siti e agenzie, come su Novaja Gazeta con un articolo “Dove sei, mia Chiesa?”. Nell’augurare “buon compleanno, mia cara Chiesa”, egli ammette che “se ora qualcuno mi chiede chi sei veramente, io davvero non so come rispondere”. I tempi della rinascita felice della religione e della Chiesa in Russia “sono ormai così lontani, che c’è da pensare che fossimo in un’altra vita”, e d’altra parte “è passato così poco tempo che fa davvero paura vedere come tutto si sia trasformato in un terribile incubo, che si è rovesciato sul mondo intero, in una specie di “non-vita”, il contrario della vita e della fede”.

Padre Andrej chiede di separare il concetto della Chiesa da quello della Russia: “oso affermare, mia cara Chiesa, che tu non hai un aspetto esteriore determinato, non siedi nelle ricche capitali con grandi apparati amministrativi, con uffici e residenze, non hai un titolo geografico, non combatti per un mondo multipolare e per la vittoria in competizioni belliche, siano esse socialiste o sovraniste, non emetti grida superstiziose per i fondamenti e i valori di un’eredità di un mondo di Marte, di Giove o di Venere”. E soprattutto, continua il sacerdote, “tu non sopporti la menzogna, non benedici quelli che è impossibile benedire, e di nuovo t’incammini sulla via che da Gerusalemme, dalla profondità di centinaia di secoli, conduce verso l’Eterno, invitando ciascuno di noi a seguirti”.

Certo, afferma Misjuk, questo “può apparire un sogno ingenuo e infantile, ma il Signore stesso ci ha ricordato quanto importante sia il tempo della nostra infanzia, della nostra purezza e ingenuità”. Il sacerdote esprime il senso di contraddizione e di colpa di tante persone che in Russia si sono riavvicinate alla religione e alla Chiesa, per trovarsi ad essere strumenti di un disegno diabolico. Egli conclude rilanciando la domanda: “Chi sei, o mia Chiesa? Dove sei? Io sono ancora parte di te? Quanto non vorrei essere escluso dai tuoi confini”. Egli ricorda il calore luminoso proprio delle celebrazioni della Pentecoste, quando i fedeli russi portano rami, erbe e fiori per ornare le icone secondo una propria tradizione, e ci si chiede “se il bosco sia cresciuto dentro la chiesa, o è la chiesa che è cresciuta nel bosco, vorrei che anche il mio cuore fosse adornato allo stesso modo”. Il saluto finale è “a tutti noi che siamo la Chiesa, che siamo come dei fari che illuminano la notte, buon compleanno a tutti noi, a ciascuno di noi, continuiamo il cammino, nonostante tutto”.

La nostalgia per la riscoperta della fede negli anni Novanta si associa a sentimenti analoghi per la scoperta della democrazia, una dimensione assai poco praticata nella storia russa, e ben presto completamente dimenticata. Quella Russia, liberale e alla ricerca di fonti della spiritualità, sembra davvero lontana assai più del trentennio trascorso, dando piuttosto l’impressione di un sogno svanito, a fronte di una realtà sempre più grottesca e spaventosa. A descrivere questa “anti-utopia” della Russia ci pensa da anni uno dei maggiori scrittori russi viventi, il settantenne post-modernista Vladimir Sorokin, che ha pubblicato un nuovo romanzo dal titolo Skazka, “La Favola”. Il suo libro più profetico era stato pubblicato nel 2006, Den Opričnika (“Il giorno dell’Opričnik”, la guardia imperiale dei tempi di Ivan il Terribile), in cui immaginava una Russia separata dal resto del mondo nel 2028, con la costruzione di un Grande Muro Russo dopo aver attraversato varie fasi di “Torbidi” (Smuta, i conflitti che rievocano la guerra con la Polonia dell’inizio Seicento).

Dopo le guerre, il romanzo narrava di una “Rinascita della Russia” sotto la guida del gosudar, il sovrano Vasilij Nikolaevič, che restaura l’autocrazia assoluta in un clima di xenofobia, protezionismo e patriottismo fanatico, con una repressione sistematica di ogni forma di dissenso, e un’economia basata sul transito dei prodotti cinesi per il resto del mondo. Visto quanto è successo negli ultimi anni, a Sorokin è stato chiesto di non scrivere più nulla, per evitare il rischio che tutto si realizzi veramente.

In realtà Sorokin ha scritto diversi altri romanzi di impressionante previsione della realtà e descrizione di un mondo spaventoso, interiore e universale, e ora lui stesso vive all’estero, visto che i suoi libri sono proibiti in patria perché denunciano in modo troppo evidente l’assurdità della vita attuale della Russia. Nella “Favola” appena uscita egli descrive un mondo post-apocalittico, dove è già avvenuta l’esplosione della guerra atomica, lo Stato si è completamente disgregato, e nessuno ricorda più che cosa fosse la Russia. Le persone tornano a vivere nelle caverne, e del passato rimane soltanto una grande discarica, in cui si aggira un adolescente, chiamato “maestro dell’archeologia dei rifiuti”, l’orfano Vanja, per indagare sulla civiltà perduta e i suoi resti, dove “si può trovare perfino un barattolo di marmellata”.

La discarica di Sorokin ricorda figure classiche della letteratura e del cinema russo, come la “Zona” dei fratelli Strugatskij e del film Stalker di Andrej Tarkovskij, una fonte di oggetti desiderati rimasti magicamente accessibili dopo la guerra totale, un luogo di forze oscure che promette di realizzare i desideri più segreti delle persone, ma è difficile trovare la giusta combinazione per estrarli dalla massa informe. Vanja cerca di metterli insieme, “all’inizio pensavo di costruire un aereo per volare nei Paesi più caldi, quindi una nave per arrivare nella ricca America, ci ho pensato tanto e alla fine, in modo sorprendente per me stesso, ho pensato solo che volevo vivere con mia mamma e mio papà nella nostra casa, con il nonno, il cane Vipka e la gattina Njulja”. Così comincia appunto la favola, che richiama il “sogno ingenuo” di padre Misjuk, nella ricerca di sé stesso e della propria identità perduta; la grotta di Vanja ricorda la caverna di Platone, che tiene l’uomo prigioniero della sua ombra, senza permettergli di uscire a conoscere la vera realtà.

Nella grotta non ci sono né porte, né finestre, ma la parete non è fatta di pietre o mattoni, è fatta di libri fino al soffitto, con i titoli erosi dal tempo sulle copertine. In essa il piccolo orfano cerca di capire qualcosa sul senso della propria vita, finché non trova una raccolta delle poesie di Puškin, ricominciando a familiarizzarsi con l’autentica cultura russa, sepolta da tempo nel profondo della caverna-biblioteca. Il romanzo si svolge nel clima tetro e ansioso della magistrale scrittura di Sorokin, ma lascia intravedere uno spiraglio di luce, una possibile rinascita futura della Russia, una nuova Pentecoste.

 

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