15/04/2023, 09.00
MONDO RUSSO
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La tavola di Pasqua della Russia in guerra

di Stefano Caprio

Come avveniva negli anni Novanta, il cibo diventa la dimensione dell’identità perduta e di quella da ritrovare. Gli stipendi medi si abbassano e allora l’unico cibo rimane la “spiritualità” dei valori morali tradizionali, confidando nei miracoli invocati da metropoliti e patriarchi, ma affidati alle mani dei cuochi rimasti senza ingredienti.

Al termine della lunga funzione pasquale notturna, come prescrivono i Typikon, le regole monastiche ortodosse, è necessario condividere la “grande consolazione fraterna”, il Paskhalnyj Pir o banchetto di fine del Digiuno, e celebrazione della comunione con Cristo risorto. Alla sua apparizione agli apostoli impauriti dopo la Sua morte, il Signore condivise il pesce arrostito per convincerli di non essere un fantasma.

Uno degli aspetti più significativi per la spiritualità ortodossa, soprattutto nel tempo di Quaresima e delle feste pasquali che oggi si celebrano, è proprio il rapporto con il cibo. Fin dall’inizio del digiuno, le brave donne cominciano a raccogliere le bucce delle cipolle, con le quali meglio di ogni altra polvere d’importazione si possono adornare le uova con il più brillante e intenso coloro rosso-marrone, e sulle quali i miniaturisti sono in grado di rappresentare santi e angeli, mari e monti e tutte le chiese e i monasteri della Russia. Se alle funzioni nelle chiese di Mosca partecipano al più due-trecentomila fedeli su dodici milioni di abitanti, nei cortili antistanti si recano per tutto il sabato santo tra i cinque e i sette milioni di persone, per la benedizione delle uova e del kulič, il panettone pasquale tipico.

Le uova colorate, simbolo della nuova vita, sono sufficienti in Russia per considerarsi membri fedeli del popolo ortodosso, e il kulič sulla tavola casalinga sostituisce senza problemi il sacramento eucaristico, che nel rito bizantino è comunque preparato con la pasta lievitata, tanto più che la sua composizione “pesante” permette di conservarlo per tutto il tempo pasquale fino alla Pentecoste. Il banchetto si conclude obbligatoriamente con la Paskha, una torta di ricotta cremosa che ricorda la Terra Promessa con i fiumi di panna e miele, che il popolo eletto raggiunge dopo la lunga peregrinazione nel deserto.

Il grande esperto di cucina russa Pavel Sjutkin ha cercato di spiegare le profondità del sacro cibo in un intervento sul sito di Radio Svoboda, alla luce della crisi incombente sull’economia russa dopo un anno di guerra e sanzioni. Nonostante finora non vi siano stati crolli repentini delle attività produttive in Russia, l’aria di crisi si sente già proprio nei luoghi di condivisione del cibo, nei ristoranti, bar e locali vari. E uno dei segnali della crescente difficoltà ad immaginare il futuro è il clima di eccessiva spensieratezza dei ristoranti del centro di Mosca, anche prima della “consolazione pasquale”, come racconta Sjutkin dopo una visita ai rinomati esercizi dei Patriaršie Prudy, i “giardini del patriarca” resi famosi dal romanzo di Mikhail Bulgakov, Il maestro e Margherita, che vi ambienta l’incontro di alcuni uomini con il diavolo Woland. Come ai tempi dell’assedio di Leningrado da parte dei nazisti, durato 900 giorni e che portò infine a una terribile carestia, le risate e i brindisi cercano di nascondere il senso di angoscia e distruzione, causato dalla tragedia della guerra, ma a cui si vuole sfuggire considerandolo un evento lontano, che “non ci riguarda”.

I capi di partito combattevano la loro guerra con il caviale e la vodka, e anche oggi dai vertici si assicura che “tutto tornerà al suo posto”, anche se le marche dei più diffusi prodotti occidentali sono ormai scomparse dalla Russia. Ovunque si vendono i pirožki, le frittelle ripiene, i bliny, le crespelle da spalmare con la smetana, la panna acida, il caviale rosso e nero che si vende a chili, e il kisel ortodosso, la gelatina per la carne conservata, che si mangia proprio la notte di Pasqua direttamente in chiesa. Sono i cibi più volte magnificati dallo stesso Putin nelle sue autobiografie, che esprimono la nostalgia per l’età dell’oro della gioventù sovietica.

In realtà, su tutti i social network si susseguono le lamentele e le maledizioni contro le “delicatezze” patriottiche che stanno sostituendo i classici elementi del fast-food all’occidentale, dove perfino le semplici patatine fritte non si riescono proprio a digerire, e i formaggi sugli scaffali dei supermercati sembrano imitazioni di plastica del cheddar britannico o delle mozzarelle casertane. E non è un fenomeno legato solo all’ultimo anno, dopo l’invasione dell’Ucraina, ma risale al 2014, quando le sanzioni hanno cominciato a colpire la Russia dopo l’annessione della Crimea.

L’esaltazione dell’ideologia putiniana detta krimnašizm, il “crimeanostrismo” basato sul grido Krym Naš!, “La Crimea è nostra!”, aveva portato alle contro-sanzioni che limitavano proprio l’importazione di prodotti alimentari stranieri (anche se non gli alcolici), per privilegiare i cibi autenticamente russi. A soffrirne furono anzitutto i ristoranti, che ancora più della spesa comune ai supermercati, si basavano sulla scelta dei prodotti di qualità. Rinacque allora il “mercato nero” di sovietica memoria, dove invece del cambio maggiorato del rublo con il dollaro, si contrabbandano i formaggi francesi e il jamon spagnolo. Siccome questo non poteva essere spiegato nei menu dei ristoranti stellati, si è inventato il termine “sostituzione dell’importazione”, importozameščenie, con effetti piuttosto contraddittori.

L’uso di ingredienti di scarsa qualità, dal latte agli oli e i grassi, con tecnologie superate e difettose, ha reso impossibile offrire alternative convincenti alle prelibatezze europee, tanto che ormai i “formaggi d’élite” in Russia sono considerati quelli provenienti da Paesi non sanzionatori come la Svizzera, l’America meridionale e l’Iran. E questo vale anche per tutto il resto della catena alimentare, dove questi “sostituti” costano mediamente il doppio dei prodotti originali ormai perduti.

Quindi si insiste, soprattutto nei giorni della rottura del digiuno nel tempo pasquale, sul “ritorno alle radici”, all’autentica cucina russa. Al di là dell’enfasi ideologica, questo presuppone l’utilizzo di elementi tradizionalmente presenti in tutti gli orti di campagna, dove si trascorrono i giorni di vacanza: le rape, le ortiche, l’avena per le polentine, il farro, le frattaglie di pollo, i frutti di bosco e i funghi, oltre alle patate e alle carote. Per i ristoranti sono grandi risparmi, offrendo al posto dei consommé e delle lasagne le patriottiche minestre di boršč e šči, con la rapa rossa e i cavoli acidi, a cui dare il titolo di “zuppa di Valaam” e vendere a 600 rubli a porzione, con una spesa di meno di 50.

I veri prodotti di “importazione parallela” si riducono sempre più, perfino la Turchia sta negando il transito dello champagne francese, e tocca versare di nuovo la gassatura artificiale del sovetskoe šampanskoe, per finire sulla vodka di qualità anch’essa inferiore a quella polacca o scandinava. E magari cercare di concludere con un caffè di contrabbando, per non doversi sorbire il bollente liquido scuro di dubbia provenienza. Il problema potrebbe aggravarsi ulteriormente con il calo del valore del rublo, che nell’anno di guerra ha retto artificialmente con manovre protettive dall’alto e sfruttando i guadagni energetici, ora sempre più a rischio.

Rinascono le stolovye, le “mense popolari” dei tempi sovietici con cibi russi a buon mercato, insalate di verza e brodi caldi di contenuto incerto, polpette di pane e grassi vari al posto degli hamburger e alette di pollo di foggia americana del “fascista” McDonald’s. Come avveniva negli anni Novanta, il cibo diventa la dimensione dell’identità perduta e di quella da ritrovare, nel passaggio dei sistemi politici ed economici. Gli stipendi medi si abbassano sotto i 40 mila rubli (500 dollari), e non si sa fino a quale baratro scenderanno, costringendo a ridurre sempre più anche i piaceri della tavola, al ristorante come a casa. E allora l’unico cibo rimane la “spiritualità” dei valori morali tradizionali, confidando nei miracoli invocati da metropoliti e patriarchi, ma affidati alle mani dei cuochi rimasti senza ingredienti.

Nei romanzi distopici di Vladimir Sorokin il cibo ha solo tre denominazioni: patriottico, ortodosso, patriarcale, e vi sono solo due tipi di carne, maiale e manzo, due tipi di condimento, il ketchup e la maionese made in Russia, due tipi di pane, bianco e nero e un solo tipo di formaggio, come ai tempi sovietici. A meno che non si riesca a scrivere una anti-utopia della pace, che soddisfi l’appetito dei popoli, e conceda la consolazione della Pasqua.

 

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