04/09/2010, 00.00
ASIA - VATICANO
Invia ad un amico

Laici cattolici, testimoni di speranza per il bene dei popoli dell’Asia

di Card. Stanislaw Rilko
Nella relazione finale del presidente del Pontificio consiglio per i laici vi è il bilancio dei lavori e una nuova visione della missione dei laici. Anche l’Asia è segnata dal nichilismo post-ideologie e dal relativismo che annacqua l’annuncio. Proclamare Gesù Cristo non è una negazione del dialogo. Riaffermato il valore dei movimenti e la loro collaborazione con i vescovi. La gratitudine per la testimonianza dei martiri contemporanei e alla Chiesa coreana.
Seoul (AsiaNews) – Pubblichiamo di seguito l’intervento che il card. Stanislaw Rilko, Presidente del Pontificio consiglio per i laici, ha tenuto oggi a conclusione del Congresso dei laici cattolici asiatici, sul tema “Proclamare Gesù Cristo in Asia oggi”, svoltosi nella capitale coreana. Nella sua relazione finale, il porporato mette in luce alcuni importanti aspetti emersi durante i lavori: la ricchezza delle esperienze laicali di evangelizzazione in Asia; il bisogno di speranza nel nichilismo dominante nel continente e nel mondo; l’identità cristiana testimoniata senza complessi o relativismi; la sintesi fra annuncio e dialogo, movimenti e parrocchie. Pur segnati dal martirio e dalla mancanza di libertà religiosa, i laici hanno un compito insostituibile.
 
1. Il Congresso dei Laici Cattolici dell’Asia volge al termine e il nostro cuore è pieno di gioiosa gratitudine per il dono che esso è stato per ciascuno e ciascuna di noi e per la Chiesa che vive in questo continente. Davvero benedetti dal Signore, i giorni che abbiamo trascorso insieme sono stati tempo di una profonda e indimenticabile esperienza della comunione ecclesiale: vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose riuniti insieme ai fedeli laici – tutti in attento ascolto di ciò che lo Spirito dice in questo specifico momento storico alla Chiesa in Asia. Abbiamo avvertito, quasi tangibile, il clima della Pentecoste, a conferma delle parole di Cristo: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni [...] fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). Nell’intenso lavoro di questi giorni ci siamo sentiti, poi, spiritualmente accompagnati dalle schiere dei santi, dei martiri e dei confessori asiatici elevati agli onori dell’altare e di tutti quei “militi ignoti della grande causa di Dio” (Giovanni Paolo II) in Asia, di cui solo il Padre eterno conosce il nome. E ci è stato d’incoraggiamento l’esempio luminoso dei grandi missionari che hanno portato l’annuncio di Gesù Cristo in questa terra sconfinata: san Francesco Saverio, il servo di Dio padre Matteo Ricci...
 
      Oggi ci scorrono dinanzi agli occhi le immagini delle toccanti celebrazioni liturgiche che hanno come scandito il ritmo della nostra riflessione e riecheggiano dentro di noi le testimonianze ascoltate, i tanti colloqui personali, le conferenze, gli interventi nelle tavole rotonde. Questo Congresso ci ha fatto scoprire aspetti insospettati della vita e della missione della Chiesa in Asia, una pluralità e una ricchezza di contenuti dinanzi alle quali è inevitabile chiedersi quale sia il denominatore comune delle esperienze emerse nel corso dei lavori e quale sia stato il filo conduttore di questo evento. Ebbene, io penso che la risposta sia racchiusa in una sola parola, “la speranza”. Credo che per tutti – Pastori, religiosi e fedeli laici – questo Congresso sia stato sopra ogni altra cosa una scuola di speranza, quella speranza di cui parla magistralmente papa Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi. Viviamo in un mondo che, nonostante i suoi eclatanti e celebrati progressi scientifici e tecnologici, è permeato da una dolorosa incapacità di sperare. L’umanità postmoderna, dimentica di Dio e scottata dal fallimento dei falsi paradisi promessi dalle ideologie di un passato non troppo lontano, dà segni di smarrimento profondo e non di rado cade vittima di un nichilismo pratico che svuota di significato la sua stessa esistenza. Perché l’uomo non può vivere senza speranza! Scrive il Papa: «Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2, 12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”, “fino al pieno compimento” (cfr Gv 13, 1 e 19, 30)».1 Questa speranza che ci viene da Cristo non è una speranza solo per me, individualistica, ma comunitaria – spiega il Santo Padre – perché «è legata all’essere nell’unione esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”».2 È questa la speranza che la Chiesa e ogni singolo cristiano sono chiamati a testimoniare al mondo, rendendo così un servizio importantissimo all’umanità del nostro tempo. San Pietro incoraggia così i destinatari della sua Prima lettera e tutti noi: «Se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate [...] né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3, 13-15). Ecco qual è la grande missione che si profila dinanzi ai cristiani in Asia: rendere ragione della speranza che è in loro... Ecco qual è la consegna che Cristo ci dà al termine del nostro Congresso: annunciare la speranza a questo continente. «La parola e la vita di ciascun cristiano possono e devono far risuonare questo annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è “Via, Verità e Vita!” (Gv 14, 6)»,3 ha scritto il servo di Dio Giovanni Paolo II nella Christifideles laici. E questo è possibile sempre, anche quando ci è negata la libertà religiosa. Ma, riprendiamo ora insieme – e proprio alla luce di questa parola: la speranza – alcune questioni chiave di cui si è trattato nel corso del nostro Congresso.
 
      2. «La Chiesa deve fare oggi un grande passo in avanti nella sua evangelizzazione, deve entrare in nuova tappa storica del suo dinamismo missionario».4 Quest’affermazione della Christifideles laici è tuttora attualissima, e insostituibile rimane il ruolo che in tale processo hanno i laici cattolici. Perciò durante il Congresso è risuonato come un leitmotiv l’invito di Cristo: «Andate anche voi nella mia vigna» (Mt 20, 3-4), che i fedeli laici – uomini e donne – devono intendere sempre più numerosi come chiaro richiamo ad assumersi la propria parte di responsabilità nella vita e nella missione della Chiesa, vale a dire nella vita e nella missione di tutte le comunità cristiane (diocesi e parrocchie) sparse in questo vasto continente e delle quali essi sono parte. L’impegno evangelizzatore dei laici sta, di fatto, già cambiando la vita ecclesiale,5 e questo rappresenta un grande segno di speranza per la Chiesa in Asia.
 
      La vastità della messe evangelica dà carattere di urgenza in questo continente al mandato missionario del Divino Maestro: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15). Ma oggi, purtroppo, anche fra i cristiani attecchisce e si diffonde una mentalità relativistica che genera non poca confusione riguardo alla missione. Qualche esempio: la propensione a rimpiazzare la missione con un dialogo nel quale tutte le posizioni si equivalgono; la tendenza a ridurre l’evangelizzazione a semplice opera di promozione umana, nella convinzione che sia sufficiente aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione; un falso concetto del rispetto della libertà dell’altro che fa rinunciare a ogni richiamo alla necessità di conversione. A questi e altri errori dottrinali hanno risposto prima l’enciclica Redemptoris missio e poi la dichiarazione Dominus Jesus e la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione della Congregazione per la Dottrina della Fede – tutti documenti che meritano di essere fatti oggetto di studio approfondito. Esplicito mandato del Signore, l’evangelizzazione non è attività accessoria, bensì stessa ragion d’essere della Chiesa sacramento di salvezza.
 
L’evangelizzazione, asserisce la Redemptoris missio, è una questione di fede, «è l’indice esatto della nostra fede in Cristo e del suo amore per noi».6 Come dice Paolo, «l’amore di Cristo ci spinge» (2 Cor 5, 14). Perciò non è fuori luogo ribadire che «non vi può essere vera evangelizzazione senza esplicita proclamazione che Gesùè il Signore»7 mediante la parola e la testimonianza di vita, poiché «l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all’esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie».8 Inoltre – e cito ancora la Redemptoris missio – «la Chiesa non vede un contrasto fra l’annuncio del Cristo e il dialogo inter-religioso; sente, però, la necessità di comporli nell’ambito della sua missione ad gentes. Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero intercambiabili».9
 
      3. A guida del nostro impegno missionario sarà grandemente utile porre le tre fondamentali leggi dell’evangelizzazione enunciate dal futuro Benedetto XVI in una conferenza pronunciata nell’anno 2000 e che qui vale la pena ricordare. La prima è quella che l’allora cardinale Joseph Ratzinger chiamava legge di espropriazione. Noi cristiani non siamo padroni, ma umili servi della grande causa di Dio nel mondo. Scrive san Paolo: «Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù» (2 Cor 4, 5). Perciò il cardinale Ratzinger sottolineava con forza che «evangelizzare non è semplicemente una forma di parlare, ma una forma di vivere: vivere nell’ascolto e farsi voce del Padre. “Non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito” dice il Signore sullo Spirito Santo (Gv 16 ,13) [...] Il Signore e lo Spirito costruiscono la Chiesa, si comunicano nella Chiesa. L’annuncio di Cristo, l’annuncio del Regno di Dio suppone l’ascolto della sua voce nella voce della Chiesa. “Non parlare nel nome proprio” significa: parlare nella missione della Chiesa».10 L’evangelizzazione non è dunque mai un affare privato, perché dietro c’è sempre Dio e c’è la Chiesa. Diceva Joseph Ratzinger: «Non possiamo guadagnare noi gli uomini. Dobbiamo ottenerli da Dio per Dio. Tutti i metodi sono vuoti senza il fondamento della preghiera. La parola dell’annuncio deve sempre bagnare in una intensa vita di preghiera».11 Questa certezza è per noi di grande sostegno e ci dà la forza e il coraggio necessari per raccogliere le sfide che il mondo lancia alla missione della Chiesa.
 
      La seconda legge dell’evangelizzazione è quella che affiora dalla parabola del granellino di senapa, «il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma [che] appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi» (Mc 4, 31-32). «Le realtà grandi cominciano in umiltà»,12 sottolineava l’allora cardinale Ratzinger. Anzi, Dio ha una predilezione particolare per il piccolo: il “piccolo resto d’Israele”, portatore di speranza per tutto il popolo eletto; il “piccolo gregge” dei discepoli che il Signore esorta a non aver paura perché proprio a esso il Padre ha voluto dare in dono il suo Regno (cfr Lc 12, 32). La parabola del granellino di senapa dice che chi annuncia il Vangelo dev’essere umile, non deve pretendere di ottenere risultati immediati – né qualitativi né quantitativi. Perché la legge dei grandi numeri non è la legge della Chiesa. E perché il padrone della messe è Dio ed è lui a decidere dei ritmi, dei tempi e delle modalità di crescita della semina. Questa legge dunque ci tutela dal farci prendere dallo scoraggiamento nel nostro impegno missionario, pur senza esimerci dal mettercela tutta perché, come ci ricorda l’Apostolo delle genti, «chi semina scarsamente, scarsamente raccoglie e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà» (2 Cor 9, 6).
 
      La terza legge dell’evangelizzazione è, infine, la legge del chicco di grano che muore per portare frutto (cfr Gv 12, 24). Nell’evangelizzazione è sempre presente la logica della Croce. Diceva il cardinale Ratzinger: «Gesù non ha redento il mondo con belle parole, ma con la sua sofferenza e la sua morte. Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà forza alla sua parola».13 Di qui il peso che nell’opera di evangelizzazione ha la testimonianza dei martiri della fede. Scrive a ragione Tertulliano: «Più numerosi diventiamo, ogni volta che [...] siamo mietuti: è semenza il sangue dei cristiani»,14 frase più conosciuta nella versione: “Il sangue dei martiri è seme dei confessori”. La testimonianza della fede sigillata con il sangue dei suoi tanti martiri è il grande patrimonio spirituale della Chiesa in Asia e un luminoso segno di speranza per il suo avvenire. Con l’apostolo Paolo i cristiani d’Asia possono dire: «Siamo [...] tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4, 8-10). 
 
      4. Per la missione evangelizzatrice della Chiesa è di capitale importanza la giusta impostazione del rapporto tra fede e cultura. E ciò vale specialmente per l’Asia, culla di culture e religioni millenarie. Lo hanno compreso molto bene grandi figure di missionari, quali il gesuita Matteo Ricci, la cui opera papa Benedetto XVI ha definito «un caso singolare di felice sintesi fra l’annuncio del Vangelo e il dialogo con la cultura del popolo a cui lo si porta, un esempio di equilibrio tra chiarezza dottrinale e prudente azione pastorale».15 Vastissimo e delicato il campo che si apre qui alla missione dei laici e che richiede una solida e approfondita preparazione teologica. L’inculturazione dell’annuncio cristiano è questione assai complessa, di forte valenza dottrinale, e non riconducibile alla mera logica dell’efficienza. Ne hanno trattato con somma chiarezza gli ultimi Pontefici. «Occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo»,16 scriveva Paolo VI nella storica esortazione apostolica Evangelii nuntiandi. Poiché, egli aggiungeva, «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre».17 Pure il venerabile servo di Dio Giovanni Paolo II ha dedicato grande attenzione alla questione, a proposito della quale ha affermato tra l’altro che «se [...] è vero che la fede non si identifica con nessuna cultura ed è indipendente rispetto a tutte le culture, non è meno vero che, proprio per questo, la fede è chiamata ad ispirare, ad impregnare ogni cultura. È tutto l’uomo, nella concretezza della sua esistenza quotidiana, che è salvato da Cristo ed è, perciò, tutto l’uomo che deve realizzarsi in Cristo. Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta».18 E nella Redemptoris missio, un testo fondamentale per questo tema, sulla scia della Evangelii nuntiandi egli ha definito l’inculturazione come «l’intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture».19 Pertanto, aggiungeva, si tratta di «un processo profondo e globale che investe sia il messaggio cristiano, sia la riflessione e la prassi della Chiesa. Ma è pure un processo difficile, perché non deve in alcun modo compromettere la specificità e l’integrità della fede cattolica».20 Sempre, infatti, è in agguato il rischio di sincretismo e di un pericoloso irenismo, come osserva la Commissione Teologica Internazionale nel documento Fede e inculturazione, dove si legge: «Per quanto grande [...] debba essere il rispetto per ciò che è vero e santo nell’eredità culturale di un popolo, un tale atteggiamento non richiede però di attribuire un carattere assoluto a quella eredità culturale. Nessuno può dimenticare che, sin dalle origini, il Vangelo è stato “scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani”».21
 
Anche Joseph Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha dedicato pagine memorabili alla questione dell’inculturazione. In una conferenza tenuta a Hong Kong proprio ai vescovi della Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche (FABC) egli ebbe a dire che «non dovremmo più parlare propriamente di inculturazione, ma di incontro delle culture o [...] di inter-culturalità. Infatti, l’inculturazione presuppone che una fede, per così dire, culturalmente spoglia si trasponga in una cultura religiosamente indifferente [...] Ora, questa rappresentazione è artificiosa e irreale, perché non esiste una fede priva di cultura e, al di fuori della moderna civiltà tecnica, non esiste una cultura priva di religione».22 Spiegava poi che «come prima cosa dobbiamo affermare che la fede stessa è cultura. Essa non esiste nuda, come mera religione. Già per il fatto che dice all’uomo chi egli sia e come debba attuare il suo essere-uomo, la fede crea cultura, è cultura [...] Di conseguenza sarebbe assurdo offrire un cristianesimo per così dire “pre-culturale” e “deculturalizzato”, che sarebbe destituito della forza storica che gli è propria e degradato a vuoto insieme di idee».23 Egli traeva quindi la conclusione importante che «chi entra nella Chiesa deve avere coscienza di entrare in un vero e proprio soggetto culturale, con una propria interculturalità storicamente sviluppatasi e stratificatasi. Senza una sorta di esodo, senza una svolta radicale della vita a tutti i livelli – terminava – non si può diventare cristiani».24 Quest’ultima affermazione è rilevante e ci ricorda che l’“essere cristiano”, che nasce dall’incontro personale con Cristo, va sempre di pari passo con lo stupore profondo per la sorprendente novità di vita che nel Battesimo il Maestro dona ai suoi discepoli. Nella vita di fede del cristiano – come nella vita di Abramo, nostro “padre nella fede” – tutto inizia da un esodo: “Esci dalla tua terra e va...”. Perciò, quando si parla di inculturazione del Vangelo non si deve mai dimenticare che la fede non si identifica con nessuna cultura, ma è capace d’impregnare ogni cultura.
 
      5. Centrale nei lavori del Congresso è stata pure la questione della formazione di un laicato maturo, consapevole della propria vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo. I Padri del Sinodo sui laici hanno raccomandato che «la formazione dei fedeli laici [venga] posta tra le priorità della diocesi e [...] collocata nei programmi di azione pastorale in modo che tutti gli sforzi della comunità (sacerdoti, laici e religiosi) convergano a questo fine».25 La formazione è, infatti, un dovere e al tempo stesso un diritto dei fedeli laici,26 e ha lo scopo di condurli alla costante verifica del proprio impegno cristiano, all’attiva partecipazione alla vita ecclesiale e al continuo approfondimento della loro corresponsabilità per la missione della Chiesa nel mondo. I Pastori devono perciò sentirsi interpellati a promuovere questo processo in seno alle parrocchie, affidando ai fedeli laici i compiti, servizi e uffici che gli competono in quanto battezzati e puntando a valorizzare sempre più la presenza e il contributo delle donne, conformemente a quanto afferma la Christifideles laici sulla necessità «di passare dal riconoscimento teorico della presenza attiva e responsabile della donna nella Chiesa alla realizzazione pratica».27 Nell’ambito di questa collaborazione dei laici occorre tuttavia tener ben presente l’Istruzione interdicasteriale che richiama a una «particolare diligenza perché siano ben salvaguardate, sia la natura e la missione del sacro ministero, sia la vocazione e l’indole secolare dei fedeli laici. [Perché] collaborare non significa [...] sostituire».28 Ed è pure da contrastare una “mentalità clericale” che rischia talvolta di rendere i sacerdoti incapaci di instaurare rapporti di vera collaborazione con i laici. Néè meno importante scongiurare un ripiegamento del laicato cattolico all’interno delle comunità cristiane. Secondo le possibilità garantite dalle leggi civili dei rispettivi Paesi, i fedeli laici – in virtù della loro indole secolare – sono infatti chiamati a dare il proprio contributo alla vita della società, guidati dai principi della dottrina sociale della Chiesa, felicemente sintetizzati nel noto Compendio,29 e che sono parte integrante del processo di evangelizzazione.30 La formazione, quindi, riguarda tutti: laici e sacerdoti. Sarebbe perciò auspicabile che ogni nuova generazione di sacerdoti e di laici prendesse in mano i documenti conciliari che li riguardano, e i fedeli laici soprattutto l’esortazione apostolica Christifideles laici, che rimane la loro vera magna charta.
 
      Luogo primario della formazione dei fedeli laici sono le parrocchie: vere palestre di vita cristiana, importanti punti di riferimento, scuole di comunione e di testimonianza della fede. In esse la Chiesa s’incarna come significativo fatto sociale. Dinanzi alle sfide che il mondo lancia alla Chiesa, anche in Asia la parrocchia deve essere oggi sostenuta e aiutata nella sua missione di educare alla fede da piccole comunità, quali ad esempio le apprezzate “comunità di base”. Ma non solo. Vorrei qui fare riferimento alla nuova e rigogliosa stagione aggregativa dei fedeli laici che nel nostro tempo è motivo di grandi speranze per la Chiesa.31 Scriveva Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio: «Ricordo, quale novità emersa in non poche Chiese nei tempi recenti, il grande sviluppo dei “Movimenti ecclesiali”, dotati di dinamismo missionario. Quando si inseriscono con umiltà nella vita delle Chiese locali e sono accolti cordialmente da Vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali, i Movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria propriamente detta. Raccomando, quindi – aggiungeva il venerabile Servo di Dio –, di diffonderli e di avvalersene per ridare vigore, soprattutto tra i giovani, alla vita cristiana e all’evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi».32 Quante persone, adulte e giovani, grazie a questi nuovi carismi elargiti generosamente dallo Spirito Santo alla Chiesa, hanno scoperto la bellezza di essere cristiani! Quanti battezzati hanno ritrovato slancio e coraggio missionario! Papa Benedetto XVI ravvisa in queste realtà aggregative le sempre nuove irruzioni dello Spirito nella vita della Chiesa e incoraggia i Pastori ad aprirsi sempre più a questo grande dono: «Dopo il Concilio – egli ha dichiarato – lo Spirito Santo ci ha donato i “movimenti” [...] luoghi di fede in cui i giovani e gli adulti sperimentano un modello di vita nella fede come opportunità per la vita di oggi. Per questo vi chiedo di andare incontro ai movimenti con molto amore. Qua e là devono essere corretti, inseriti nell’insieme della parrocchia o della diocesi. Dobbiamo però rispettare lo specifico carattere dei loro carismi ed essere lieti che nascano forme di fede in cui la parola di Dio diventa vita».33 Grazie perciò, di cuore, ai rappresentanti dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità che operano in questo continente. Grazie per la preziosa testimonianza che hanno portato al nostro Congresso e grazie per tutto quanto fanno al servizio della Chiesa che vive in Asia. Una Chiesa che non potrà trarre che beneficio dalla valorizzazione dei nuovi carismi, da una sempre maggiore apertura nella carità pastorale a questo dono dello Spirito Santo, che è prezioso segno della speranza che non delude.
 
      La prospettiva ultima di ogni processo di formazione autenticamente cristiano è la santità. È importante parlarne a conclusione di questo Congresso che ha visto la partecipazione di una significativa rappresentanza del laicato cattolico asiatico. Come dicevo all’inizio, in questi giorni ci siamo sentiti sostenuti dai santi, dai martiri e dai confessori della fede dell’Asia. E ne abbiamo avvertito fortemente la vicinanza spirituale soprattutto durante la celebrazione della memoria dei Martiri coreani nel bellissimo Santuario a loro dedicato. I santi sono grandi maestri di vita cristiana. Ci parlano della centralità di Dio – il Dio che si è rivelato nel volto di Gesù Cristo – nella vita dell’uomo. Ci infondono il coraggio di scommettere tutta la nostra vita su Dio e col loro esempio ci confermano che vale la pena, che dà felicità. E così ci sfidano ad uscire dalla gabbia delle nostre sicurezze, da una mediocrità che ci rende accomodanti con lo spirito di questo mondo, inclini ai compromessi con la cultura laicista che oggi domina la scena anche qui in Asia, insignificanti e invisibili. I santi ci ricordano che il sale deve dare sapore e la lucerna, diffondere luce. Che la sequela del Maestro comporta scelte radicali, significa andare controcorrente, essere “segno di contraddizione” là dove ci chiama il Signore. Non ultimo, i santi – e soprattutto i martiri – sono straordinari costruttori di unità. Giovanni Paolo II parlava dell’“ecumenismo dei martiri”: cattolici, protestanti, ortodossi uniti al di là delle confessioni dallo stesso amore a Cristo: «Amor Dei usque ad contemptum sui» (l’amore di Dio fino al disprezzo di sé), come ha scritto sant’Agostino nella Città di Dio. Porgiamo orecchio alla voce dei santi, lasciamoci convincere che la santità non è un’utopia, ma l’affascinante traguardo che Cristo prospetta a tutti i battezzati. Ecco, un altro motivo di speranza che ci viene da questo Congresso.
 
      6. La portata dei compiti che la Chiesa deve affrontare in Asia all’inizio del terzo millennio dell’era cristiana ci fa sentire inadeguati e impotenti. La grande causa di Dio e del Vangelo nel mondo è costantemente ostacolata e contrastata da forze ostili di vario segno. Ma a rincuorarci sono ancora le parole di speranza di Benedetto XVI. Diceva in una omelia sui “fallimenti di Dio”, tenuta ai vescovi svizzeri in visita ad limina: «Inizialmente Dio fallisce sempre, lascia esistere la libertà dell’uomo, e questa dice continuamente “no”. Ma la fantasia di Dio, la forza creatrice del suo amore è più grande del “no” umano [...] Che cosa tutto ciò significa per noi? Innanzitutto significa una certezza: Dio non fallisce. “Fallisce” continuamente, ma proprio per questo non fallisce, perché ne trae nuove opportunità di misericordia più grande, e la sua fantasia è inesauribile. Non fallisce perché trova sempre nuovi modi per raggiungere gli uomini e per aprire di più la sua grande casa».34 Ecco perché la speranza non deve abbandonarci mai. Il Successore di Pietro ci assicura che Dio «anche oggi troverà nuove vie per chiamare gli uomini e vuole avere con sé noi come suoi messaggeri e servitori».35
 
      Carissimi fratelli e sorelle, concludo facendo mia per voi l’esortazione dell’Apostolo delle genti: «Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato» (Col 2, 6).
 
* Presidente del Pontificio Consiglio per i laici
 
Foto: P. Him Lee
1 Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 27.
2 Ibidem, n. 14.
3 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 34.
4 Ibidem, n. 35.
5 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, n. 2.
6 Ibidem, n.11.
7 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Ecclesia in Asia, n. 19.
8 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio”, n. 42.
9 Ibidem, n. 55.
10 J. Ratzinger, La nuova evangelizzazione, “L’Osservatore Romano”, 11-12 dicembre 2000, p. 11.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Ibidem.
14 Tertulliano. Liber apologeticus 50, 13.
15 Benedetto XVI, Discorso durante l’udienza alle diocesi marchigiane per il quarto centenario della morte di Matteo Ricci, “L’Osservatore Romano”, 30 maggio 2010, p. 8.
16 Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 20.
17 Ibidem.
18 Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al Congresso nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, “Insegnamenti” V, 1 (1982), p. 131.
19 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, n. 52.
20 Ibidem.
21 Commissione Teologica Internazionale, Documenti 1969-2004, Edizioni Studio Domenicano 2006, p. 373.
22 J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2003, p. 66.
23 Ibidem, pp. 70 e 72.
24 Ibidem, p. 73.
25 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 57.
26 Cfr. Ibidem, n. 63.
27 Ibidem, n. 51.
28 Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, Libreria Editrice Vaticana 1997, p. 7.
29 Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana 2004.
30 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 5.
31 Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 29.
32 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, n.72.
33 Benedetto XVI, Discorso ai presuli della Conferenza episcopale della Repubblica Federale di Germania in visita “ad limina”, “Insegnamenti” II, 2 (2006), p. 637.
34 Benedetto XVI, Omelia durante la concelebrazione eucaristica con i vescovi della Svizzera, “Insegnamenti” II, 2 (2006), pp. 570 e 573.
35 Ibidem.
TAGs
Invia ad un amico
Visualizza per la stampa
CLOSE X
Vedi anche
Messaggio del papa al Congresso dei laici cattolici in Asia
01/09/2010
Laici cattolici, una “minoranza creativa” per l’Asia
01/09/2010
I nuovi orizzonti dei cattolici coreani dopo il Congresso di Seoul
15/09/2010
Congresso dei laici: Proclamare Gesù Cristo nell’Asia di oggi
24/08/2010
Chiesa di Corea, protagonista del Congresso dei laici cattolici
06/09/2010


Iscriviti alle newsletter

Iscriviti alle newsletter di Asia News o modifica le tue preferenze

ISCRIVITI ORA
“L’Asia: ecco il nostro comune compito per il terzo millennio!” - Giovanni Paolo II, da “Alzatevi, andiamo”