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Le tre crisi dentro le rivolte in Iran

di Alessandra De Poli

Riccardo Redaelli, direttore del master in Middle East Studies dell'Università Cattolica di Milano, sulle proteste dei giovani iraniani: sono il risultato di una progressiva degenerazione economica, sociale e politica. Una parte del regime è consapevole che sia necessario fare delle concessioni per evitare un bagno di sangue. Allo stesso tempo i dimostranti non hanno un modello alternativo in caso di caduta del regime.

Milano (AsiaNews) - “Le proteste e le rivolte in Iran a cui stiamo assistendo non sono una nuova rivoluzione, ma il risultato di tre crisi: economica, sociale e politica”. È quanto sostiene il prof. Riccardo Redaelli, docente di geopolitica e storia del Medio Oriente e direttore del master in Middle East Studies dell'Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. “Il ceto medio, che è quello che ha avuto un ruolo fondamentale nella rivoluzione khomeinista del 1979, mettendo fine alla monarchia dello shah Pahlavi, si è impoverito moltissimo. I giovani sono stanchi delle intromissioni della teocrazia iraniana nella vita di tutti i giorni. Mentre l’opposizione interna al sistema, che fino alle ultime elezioni era in qualche modo presente, è stata marginalizzata”. 

Così si è arrivati alle manifestazioni di piazza scoppiate a metà settembre dopo la morte per pestaggio di Mahsa Amini, la 22enne di etnia curda incarcerata e picchiata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo. Alle proteste il regime teocratico ha risposto con incarcerazioni ed esecuzioni sommarie di giovani manifestanti accusati di moharebeh, “far la guerra contro Dio”. Eppure c’è spazio affinché il conflitto si acuisca ulteriormente. Il problema, semmai, è che l’opposizione non dispone di un modello alternativo al regime teocratico della Repubblica islamica.

Più volte esperti e commentatori hanno sottolineato l’unicità di queste manifestazioni data dall’unione di diversi gruppi sociali ed etnici (persiani, curdi, beluci, minoranze di tagiki, azeri eccetera). Con gli scioperi i bazarì (i commercianti) stanno dando il loro appoggio ai giovani, ma è difficile capire quanto questo sostegno sia diffuso. Con le dovute differenze, il ceto medio “è già in enorme difficoltà e non vuole fare la fine dell’Iraq e della Siria”, ovvero di Stati falliti in cui a comandare, anche sul piano economico, sono milizie locali. Per loro, dare il pieno appoggio alle proteste significherebbe “fare un salto nel vuoto, ma parliamo di un ceto medio che tradizionalmente non è molto avventurista”, spiega Redaelli.

“I giovani non ne possono più”, continua il docente, “ma non hanno una valida alternativa da proporre in caso di caduta del regime”. Il dato più importante da sottolineare è che “i ragazzi e le ragazze iraniane oggi si dichiarano anti-musulmani. C’è ormai un numero crescente di giovani che o si converte segretamente o veste il simbolo zoroastriano. Il clero politicizzato dell’Iran ha provocato questo contraccolpo all’islam, in un Paese dove la religione è sempre stata fondamentale”. 

Il sistema di governo della Repubblica islamica nato dopo il rovesciamento della monarchia nel 1979 è duale: il presidente e il Parlamento, eletti dalla popolazione, sono supervisionati dalla guida suprema e dal Consiglio dei guardiani, composto da chierici e giuristi musulmani sciiti che per tutelare il carattere islamico dell’Iran possono squalificare i candidati alle elezioni. Tuttavia questo equilibrio tra potere politico e religioso ha retto per anni perché il presidente della Repubblica è stato spesso un rappresentante delle istanze moderate.

“Fino al 2019 - prosegue il professore - c’erano leader che volevano riformare il sistema (detto nizam), non distruggerlo. Ma i riformisti e i moderati sono stati messi da parte dopo gli ultimi tentativi di liberalizzazione. Questo ha reso più compatto il sistema di potere, ma lo ha anche reso molto più vulnerabile. Queste proteste sono più radicali rispetto alle precedenti, perché non solo nascono da istanze diverse, ma anche perché non hanno un leader”. E così si è arrivati a uno scontro diretto tra dimostranti e difensori del regime. 

“Ma ci sono divisioni all’interno della stessa leadership politica: molti non amano questa deriva estrema. Anche se i media del regime tuonano dicendo che serve la repressione totale, alcuni politici sono consapevoli dell'impossibilità di un bagno di sangue e c’è un profondo disaccordo, soprattutto a livello religioso. Da qui derivano i segnali di apertura che ci sono stati”, come l’annuncio di riforma della polizia morale. Ma che per la popolazione iraniana non sono sufficienti, al contrario, sono solo sintomo di divisione.

La stessa guida suprema Ali Khamenei è a un bivio: “Per lui non si sono mai potute fare concessioni culturali, che siano sul velo, sull’odio per Israele o sull’apertura all’Occidente, perché teme che possa precipitare tutto: tolti questi simboli la Repubblica islamica smetterebbe di esistere perché nel frattempo nessuno degli obiettivi promessi nel 1979 è stato raggiunto”, spiega il docente. “D’altra parte, però, nemmeno l’ayatollah vuole un bagno di sangue perché non vuole essere ricordato come lo shah”, l'ultimo monarca. 

La repressione infatti avrebbe potuto essere ancora più brutale: “Finora i pasdaran (i guardiani della rivoluzione islamica khomeinista, che detengono il monopolio della forza e del potere economico) non sono ancora stati dispiegati del tutto, sono tenuti a freno”. Basti pensare che durante le ultime proteste nel 2019 c’è stato il triplo dei morti riportati finora, circa 500 con oltre 18mila arresti. Ma tre anni fa la repressione si concentrava contro le minoranze etniche e chi manifestava per il carovita. “Oggi invece i soldati iraniani sparano contro bambini di 13-14 anni. Questo vuol dire credere fermamente che sia necessario difendere il regime”.

Nel 1979, inoltre, i soldati di leva avevano rimosso il loro appoggio a Pahlavi, ed è anche per questo che secondo il professore non si può parlare di rivoluzione, almeno non ancora. “Il regime sta decretando la sua fine nel lungo periodo, perché non può esserci futuro per un Paese che ammazza le proprie nuove generazioni. Allo stesso tempo quello che si chiedono i politici iraniani è: ‘Che concessioni possiamo fare senza decretare la fine della Repubblica islamica?’”. Una domanda finora rimasta senza risposta.

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