Milizie irachene e libanesi alla larga da Teheran nella guerra con Israele
Foraggiato dall'Iran per 20 anni come elemento di deterrenza, l'"Asse della resistenza" sta tenendo un basso profilo nella guerra. Dal premier iracheno al leader religioso al-Sadr l’ordine è “far tacere” le “voci spericolate” che vogliono entrare conflitto. Almeno 20 nazioni musulmane e arabe sottoscrivono un documento per un Medio oriente libero da armi nucleari “senza eccezioni” (con un riferimento a Israele).
Baghdad (AsiaNews) - Nella guerra lanciata da Israele contro l’Iran il 13 giugno, caratterizzata da un’imponente azione militare contro un Paese sovrano come non accadeva da tempo per lo Stato ebraico, è finora mancato uno dei fattori sui quali Teheran ha puntato per anni come elemento di forza e deterrenza: il cosiddetto “Asse della resistenza” emerso nel 2003 dopo l’invasione Usa dell’Iraq nel 2003 e che, 20 anni più tardi, ha cominciato a perdere consistenza - e capacità di azione - con la guerra di Israele contro Hamas a Gaza, in risposta all’attacco del 7 ottobre. Analisti ed esperti sottolineano come la Repubblica islamica abbia per decenni sviluppato e finanziato una rete - terroristica, o di milizie combattenti a seconda della prospettiva dalla quale si osservano questi gruppi - per non dover combattere in prima persona. Tuttavia, proprio oggi che è sotto attacco nel contesto dell’operazione “Leone nascente” non può contare sull’aiuto di Hezbollah o altri movimenti ormai indeboliti per unirsi in battaglia a fianco del loro “padrino”.
La rete di Teheran
Per anni l’esercito israeliano si è confrontato con organizzazioni sostenute, finanziate o controllate dall’Iran, oggi obiettivo primario della guerra. Dalla rivoluzione del 1979 in poi Teheran ha investito sforzi e risorse per diffondere la propria ideologia tra le popolazioni sciite del Medio oriente, costruendo una rete di gruppi para-militari o combattenti, assoldando anche sunniti. Negli ultimi decenni la Forza Quds, unità speciale del Corpo dei Guardiani della rivoluzione (Pasdaran), si è concentrata sul sostegno di queste organizzazioni attraverso aiuti finanziari, fornitura di armi e munizioni e persino l’addestramento, talvolta pure in territorio iraniano.
La loro presenza ha contribuito a scoraggiare - e scongiurare in chiave iraniana - qualsiasi invasione o attacco diretto dell’Occidente per rovesciare gli ayatollah a Teheran. Tuttavia, ora che la potenza di fuoco di Israele è diretta contro l’Iran stesso questi movimenti sono scomparsi: alcuni, come Hezbollah, sono stati duramente indeboliti nella guerra contro Hamas a Gaza, mentre altri sembrano essere “contenuti” dai governi dei Paesi che li ospitano, perché restino fuori da una lotta a tutto campo dalle conseguenze devastanti. Tanto che la Repubblica islamica, oggi, sembra costretta a fare affidamento esclusivo alla propria potenza militare.
Secondo stime Idf dell’ottobre 2024 il Partito di Dio libanese conserverebbe meno del 30% della propria potenza di fuoco rispetto al periodo precedente il conflitto. Inoltre, negli ultimi sei mesi due delle tre posizioni chiave ai vertici del Paese dei cedri - il premier Nawaf Salam e il presidente Joseph Aoun - hanno mostrato l’intenzione di disarmare Hezbollah e scongiurare una guerra con Israele. I ribelli Houthi in Yemen sono l’unica fazione filo-iraniana - con attacchi alle navi commerciali e ai mercantili nel mar Rosso - che ha continuato a combattere al fianco di Teheran, ma le sue capacità offensive risultano limitate per distanza e arsenale a disposizione e il loro ruolo in questi ultimi giorni è risultato marginale.
Iraq post-Saddam
Dall’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, con la caduta del raìs Saddam Hussein, l’Iran ha sostenuto con armi e finanziamenti le milizie sciite nel Paese vicino, con l’obiettivo di estendere la propria influenza in tutta la regione. Negli anni questi gruppi al soldo di Teheran hanno preso di mira soprattutto gli Stati Uniti, pur rivolgendo in alcuni frangenti le loro armi anche contro Israele dopo il 7 ottobre 2023 con l’attacco di Hamas e il conflitto a Gaza. Tuttavia, la risposta dello Stato ebraico in guerra su più fronti - dalla Siria allo Yemen, dal Libano all’Iran - e le crescenti pressioni interne ed esterne hanno di fatto congelato queste operazioni.
Dal 2014, le milizie in Iraq hanno operato sotto un’organizzazione ombrello nota come Forze di mobilitazione popolare (Pmf), lanciando missili contro i militari americani e combattendo lo Stato islamico (SI, ex Isis) nella fase di massima espansione. Per almeno due anni, fra il 2023 e il 2024, le milizie hanno partecipato al conflitto multi-fronte, lanciando droni verso Israele e prendendo di mira le Alture del Golan ed Eilat. Nell’ottobre dello scorso anno due soldati israeliani (Idf) sono stati uccisi in un attacco di droni lanciato da milizie filo-Teheran. Tuttavia, verso la fine dell’anno - e ancor prima della firma della fragile tregua a Gaza durata poche settimane - i gruppi combattenti hanno congelato le operazioni contro Usa e Israele, parte di un accordo col governo di Baghdad.
Un alto funzionario della milizia al-Nujaba, una delle fazioni chiave irachene, ha confermato al quotidiano libanese Al-Akhbar che a dicembre è stato raggiunto un “patto” per fermare le attività militari. Secondo i media arabi è collegato al ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump e alla contemporanea caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria, alleato dell’Iran. Inoltre, il 14 giugno il saudita Asharq Al-Awsat ha rilanciato voci secondo cui Baghdad ha trasmesso un messaggio simile a quello che Beirut ha inviato a Hezbollah: stare fuori dalla guerra tra Israele e Iran. Il primo ministro Mohammed al-Sudani ha parlato coi capi e nella partita è entrato anche l’influente Muqtada al-Sadr, il quale ha esercitato pressioni sulle milizie per il blocco delle operazioni. “L’Iraq e il suo popolo non hanno bisogno di nuove guerre” ha scritto il leader sciita il 13 giugno. “Chiediamo - ha aggiunto - di far tacere le voci spericolate che chiedono il coinvolgimento dell’Iraq nella guerra e di ascoltare la voce della saggezza e le direttive dei capi religiosi”.
Arabi e musulmani contro l’atomica
Intanto almeno 20 nazioni arabe e musulmane tra cui Qatar, Oman e Pakistan - quest’ultima una potenza nucleare - hanno invocato la creazione di una “zona libera da armi nucleari” in Medio Oriente. In un comunicato congiunto i firmatari sottolineato “l’urgenza di creare una zona libera da armi nucleari e altre armi di distruzione di massa in Medio oriente, che si applichi a tutti gli Stati della regione senza eccezioni”. Fra quanti hanno aderito all’iniziativa vi sono fra gli altri Arabia Saudita, Egitto, Libia, Kuwait, Iraq, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Turchia. Spicca la presenza del Pakistan, unica nazione a maggioranza musulmana a possedere l’atomica e non firmatario del Trattato sulla non proliferazione (Tnp). Dietro l’appello vi è anche il proposito di coinvolgere lo Stato ebraico nella partita, perché se gli ayatollah sono accusati di perseguire la bomba atomica, l’unica nazione del Medio oriente a possederla è Israele. Una questione controversa, perché il governo non lo ha mai riconosciuto come è segreta la portata dell’arsenale.