21/03/2023, 10.50
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Mondo arabo pronto a riabbracciare Assad (e archiviare nodo diritti)

di Dario Salvi

Nei giorni scorsi il presidente siriano ha visitato gli Emirati Arabi Uniti. Con lui anche la moglie, prima visita all’estero dall’inizio del conflitto. Abu Dhabi guida la politica di riavvicinamento di Damasco nel mondo arabo. Anche la Lega araba pronta a discutere il reintegro. Le centinaia di morti fantasma nelle carceri governative. 

Milano (AsiaNews) - Osteggiato, isolato, persino combattuto con armi e mezzi nel suo stesso Paese, sul suo territorio, ancora oggi segnato da un conflitto che si consuma da 12 anni al prezzo di centinaia di migliaia di vittime e milioni di sfollati. E oggi riabilitato, tanto che a breve si potrebbe arrivare alla firma di un accordo che - se finalizzato - finirebbe per ripristinare gli antichi legami fra Damasco e gran parte delle nazioni del Medio oriente, anche e soprattutto per limitare la crescente influenza iraniana.

Il presidente siriano Bashar al-Assad, nei giorni scorsi in visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti (Eau), sta operando per tessere una nuova rete diplomatica col mondo arabo, sempre più disposto a riabbracciarlo all’interno di un quadro di alleanze un tempo consolidate. Una decisione, spiegano fonti arabe ed europee, che garantirebbe maggiori aiuti, a fronte di una serie di requisiti che le autorità siriane dovrebbero accogliere e rispettare.

La diplomazia post-terremoto

Di recente le nazioni del mondo arabo, guidate dalla Giordania, hanno avviato colloqui durante i quali hanno proposto un pacchetto di aiuti da miliardi di euro per aiutare Damasco nella ricostruzione di una nazione martoriata dal conflitto interno e colpita dalla bomba della povertà. A questo si aggiungerebbe una intensa attività diplomatica nei confronti di Washington e di Bruxelles, per ottenere quantomeno un allentamento delle sanzioni. In cambio Assad dovrebbe avviare seri colloqui con le opposizioni, accogliere truppe arabe sul territorio per garantire un corridoio sicuro per il ritorno dei rifugiati (in maggioranza in Turchia), contrastare il narcotraffico (a partire dal captagon) e bloccare la crescente influenza iraniana. 

Per ora è ancora presto per parlare di svolta e le trattative sono ancora in una fase iniziale. Lo stesso leader siriano non ha mostrato alcun interesse a discutere di riforme politiche o accogliere eserciti stranieri sul territorio, come confermano diverse fonti. E, di pari passo, anche le potenze occidentali non appaiono intenzionate ad allentare la morsa delle sanzioni fino a che non migliorerà la situazione dei diritti umani. Tuttavia, il devastante terremoto che ha colpito il 6 febbraio scorso Turchia e Siria potrebbe aver sbloccato una situazione in stallo da tempo offrendo allo stesso Assad la possibilità di capitalizzare il disastro umanitario per ridurre - ad eccezione di Russia, Iran e pochi altri Stati al mondo - l’isolamento internazionale. 

Un altro fattore chiave è il cambio impresso da Riyadh, a lungo ostile a un riavvicinamento con la leadership alawita al potere a Damasco. Il mese scorso il ministro saudita degli Esteri Faisal bin Farhan ha chiesto la fine dello status quo sulla Siria, per consentire una risposta alla crisi umanitaria di lungo periodo; più di recente, il regno wahhabita ha riallacciato i rapporti con la Repubblica islamica grazie alla mediazione della Cina, mostrando apertura a un cambio di rotta negli equilibri regionali. La stessa Lega araba, che raggruppa 22 nazioni e ha sospeso la Siria nel 2011 all’indomani della violenta repressione delle proteste di piazza, è pronta a discutere del reintegro, appuntamento fissato al prossimo vertice previsto entro fine anno proprio in casa saudita. 

Il ruolo degli Emirati

A muovere con decisione i fili della diplomazia per riportare Damasco nell’orbita del mondo arabo vi sono gli Emirati Arabi Uniti (Eau), dove si è recato nei giorni scorsi il presidente Assad dopo aver visitato in precedenza l’Oman. Il Sultanato è l’unica nazione araba ad aver mantenuto i rapporti col governo siriano anche all’indomani della guerra, mentre Abu Dhabi è la prima ad aver normalizzato i rapporti nel 2018 quando ancora infuriava il conflitto. E sono stati sempre gli Emirati i primi ad aiutare la Siria nei giorni successivi al terremoto, dando nuovo impulso alla diplomazia che potrebbe spingere altre nazioni del Medio oriente a seguirne le orme. Durante l’incontro Assad ne ha elogiato il ruolo nel rafforzare le relazioni all’interno dei Paesi arabi, attaccando quanti cercano di spezzare i legami fra nazioni che dovrebbero avere fra loro rapporti “fraterni”.

Dai tempi della Primavera araba il presidente siriano ha compiuto rari viaggi all’estero, ad eccezione degli alleati Iran e Russia, e sempre in solitaria. La tappa negli Emirati ha registrato anche la presenza della moglie Asma al-Assad, prima assoluta in un decennio, a conferma di diverso clima nell’area emerso pure nella ripresa delle relazioni fra Arabia Saudita e Iran. Lo stesso Assad ha definito una “splendida sorpresa” la svolta nelle relazioni fra regno wahhabita e repubblica islamica, aggiungendo che “la politica saudita sta prendendo una direzione diversa nei confronti della Siria”. 

Abu Dhabi ha promesso oltre 100 milioni di euro in aiuti alla Siria per la fase di emergenza post-sisma, somma di gran lunga maggiore fornita da un’unica nazione oltre ad aver inviato squadre e mezzi di soccorso, tonnellate di beni di prima necessità e medicine. Inoltre, a febbraio il ministro Eau degli Esteri Abdullah bin Zayed Al Nahyan si è recato in visita nel Paese, primo e unico alto funzionario arabo a portare in prima persona solidarietà e vicinanza.

Abdulkhaleq Abdulla, analista emiratino, sottolinea all’Afp che per Abu Dhabi e “molti Stati arabi” è arrivato il momento di “riconciliarsi” con Assad e “vedere la Siria tornare nella Lega araba e nell’ovile arabo”, trasformando “nemici del passato in amici di domani”. Diverse fonti interne all’emirato concordano nel ritenere una priorità il raggiungimento di una “soluzione politica”, per scongiurare una ulteriore ripresa del terrorismo e dell’estremismo che hanno proliferato indisturbati a lungo grazie al conflitto. Ora resta da superare il muro eretto da Stati Uniti ed Europa, secondo cui il terremoto non rappresenta un motivo di “cambiamento radicale” nella politica verso Damasco, colpevole della morte di centinaia di migliaia di siriani e dell’uso di armi chimiche. Infine, vi sono resistenze che permangono anche in seno al mondo arabo in particolare sull’asse Qatar, Kuwait e Marocco che non hanno mai inviato aiuti nelle zone terremotate controllate dal governo. 

Le carceri di Assad

Vi è infine un ultimo, ma non secondario aspetto da considerare nel reintegrare Assad e il governo (o regime, secondo i più) nell’assise internazionale. Le violazioni ai diritti umani che, stando alle denunce di ong, continuano ancora oggi nel silenzio della comunità internazionale. Un rapporto pubblicato dal Syrian Network for Human Rights (Snhr) mostra che almeno 547 detenuti sono morti lo scorso anno nelle carceri governative. Damasco avrebbe inoltre “registrato migliaia di persone scomparse a forza come decedute, fra le quali vi sono anche attivisti di primo piano che hanno guidato la rivolta popolare” nelle prime fasi della protesta. Il gruppo attivista afferma di aver ricevuto oltre un migliaio di certificati di morte fra il 2018 e il 2021.

Secondo i dati di Snhr, 1.069 individui “scomparsi nelle carceri fra l’inizio del 2018 e il novembre 2022 sono stati registrati come morti” per cause naturali, fra i quali anche 24 bambini, 21 donne e 16 medici. Fonti vicine all’opposizione riferiscono di almeno 500mila persone ancora oggi rinchiuse nelle prigioni o nei centri per interrogatorio. Critiche giungono infine anche da Human Rights Watch (Hrw), secondo cui la ripresa delle relazioni con Damasco senza un reale cambiamento, riforme politiche e diritti civili sarebbe solo un lasciapassare per gli abusi commessi in questi anni da Assad. 

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