Naruhito in Mongolia per i caduti. Ma in Asia resta aperta la ferita dei prigionieri di guerra
Nel 80° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, l’imperatore visita per la prima volta Ulan Bator per rendere omaggio ai soldati giapponesi morti nei campi sovietici. Ma l’ombra delle atrocità commesse dall’esercito imperiale continua a pesare nei rapporti con i Paesi asiatici, con cui oggi Tokyo cerca nuove aperture diplomatiche in chiava anti-Pechino.
Ulan Bator (AsiaNews) - L’imperatore Naruhito, accompagnato dalla consorte Masako, è arrivato in Mongolia dove si tratterrà fino a alla fine della settimana per onorare la memoria dei prigionieri di guerra giapponesi che durante la Seconda guerra mondiale furono imprigionati dall’Unione sovietica. È la prima volta che una coppia imperiale giapponese si reca in visita in Mongolia, un Paese ricco di risorse minerarie e oggi diviso tra le influenze occidentali e quelle di Cina e Russia.
Il gesto rientra tra le iniziative compiute dal Giappone in occasione dell’80° anniversario della fine del conflitto mondiale. Ad aprile Naruhito ha visitato per la prima volta l’isola di Iwo Jima e poi a giugno anche Okinawa, luoghi in cui i giapponesi combatterono feroci battaglie contro gli invasori statunitensi e furono poi occupate rispettivamente fino al 1968 e al 1972. A Iwo Jima morirono circa 40mila soldati, perlopiù statunitensi, mentre a Okinawa persero la vita 200mila persone, circa 12mila americani e 188mila giapponesi, tra cui molti civili.
Si stima che tra il 1941 e il 1945, tra i 12mila e i 14mila soldati giapponesi furono detenuti in Mongolia e circa 1.700 di loro morirono dopo essere stati costretti ai lavori forzati per la costruzione di sedi governative, dell’università statale e di un teatro a Ulan Bator. “È importante non dimenticare coloro che hanno perso la vita, approfondire la comprensione del passato bellico e coltivare un cuore amante della pace”, ha dichiarato Naruhito.
Prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, la Mongolia, guidata da un governo comunista, aveva siglato un’alleanza difensiva con l’Unione sovietica per proteggere la ferrovia transiberiana e contrastare l’espansione giapponese in Manciuria e in Mongolia Interna. Gli scontri al confine tra il Giappone e l’URSS portarono le due potenze a firmare un patto di non aggressione nel 1941 in cui la Mongolia risultava come “Stato cuscinetto” neutrale. Ulan Bator poi parteciperà al conflitto mondiale garantendo rifornimenti all’alleato sovietico, ma solo il 10 agosto 1945, due giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’URSS contro il Giappone, si unirà ai combattimenti partecipando all’invasione della Manciuria.
La tragedia dei prigionieri costretti ai lavori forzati fu una costante durante la Seconda guerra mondiale, soprattutto nelle zone occupate dall’esercito giapponese, che sottopose intere popolazioni a condizioni disumane per sostenere lo sforzo bellico. Oltre agli stupri di donne straniere, per la maggior parte coreane (le cosiddette “comfort women”, di cui a lungo Tokyo ha negato l’esistenza), diversi episodi coinvolsero i Paesi del sud-est asiatico.
Nelle Filippine, per esempio, nell’aprile del 1942 circa 76mila prigionieri (di cui 66mila filippini e 10mila americani) che si erano arresi all’esercito imperiale giapponese (un atto considerato vile in Giappone, che al contrario costrinse anche molti civili ai suicidi collettivi per non finire nelle mani del nemico) furono costretti a una marcia di 106 chilometri, un evento che prese il nome di “Marcia della morte di Bataan". Secondo le stime, durante la marcia - compiuta per portare i detenuti in un campo di prigionia - morirono 2.500 filippini e 500 americani. All’arrivo perirono poi per fame e stenti altri 26mila filippini e 1.500 americani. I comandanti giapponesi non si aspettavano di catturare un così alto numero di soldati alleati e non avevano infrastrutture e mezzi sufficienti per trasportarli al campo militare O’Donnell, destinazione finale della marcia. Il generale giapponese Homma Masaharu, responsabile dell’episodio, fu condannato ed eseguito per crimini di guerra.
Tra Birmania e Thailandia, invece, i giapponesi costruirono una ferrovia di circa 420 chilometri per collegare i due Paesi utilizzando come schiavi decine di migliaia di prigionieri alleati e centinaia di migliaia di civili asiatici, chiamati “romusha”. Il Regno Unito perse il controllo del possedimento coloniale nel 1942 perché non aveva sufficienti truppe nella regione per contrastare l’esercito imperiale. Malnutrizione, malaria, dissenteria, colera, mancanza di cure mediche e orari di lavoro fino a 18 ore al giorno segnarono le condizioni di detenzione. La “ferrovia della morte”, che serviva le necessità logistiche dei giapponesi, venne completata nel 1943, in anticipo rispetto a quanto previsto. Morirono tra i 12mila e i 60mila prigionieri alleati, tra gli 80mila e i 100mila civili asiatici, e anche 1.000 soldati giapponesi.
A Singapore, dopo la resa britannica del 15 febbraio 1942, i giapponesi attuarono un massacro poi divenuto noto come “Sook Ching”: migliaia di cinesi maschi tra i 18 e i 50 anni furono arrestati, identificati come comunisti e “anti-giapponesi” ed uccisi tramite esecuzioni sommarie. Le stime delle vittime variano da un minimo di 5mila, secondo le autorità nipponiche, a una cifra comunemente accettata di 50mila. L’operazione era stata pianificata già prima dello sbarco giapponese. L’episodio è visto anche come un’estensione della guerra sino-giapponese, iniziata nel 1937 e descritta da Pechino come guerra di resistenza contro l’aggressione giapponese, una definizione ancora oggi utilizzata dalla propaganda cinese in chiave anti-Tokyo.
L’occupazione portò a gravi difficoltà economiche e carestie diffuse a causa della cattiva gestione giapponese, dello sfruttamento delle risorse e dell’interruzione delle precedenti reti commerciali, ma al termine del conflitto i Paesi del sud-est asiatico accettarono riparazioni parziali a causa delle pressioni economiche e ideologiche di stringere legami con Tokyo che entrò a far parte della sfera di influenza statunitense durante la Guerra fredda.
Anche in Indonesia i giapponesi condussero una brutale occupazione e commisero una serie di crimini di guerra. Uno dei casi più noti riguarda la vicenda del professor Achmad Mochtar, scienziato indonesiano giustiziato dai giapponesi nel luglio 1945, accusato, sotto tortura, di aver ucciso 900 romusha originari di Giava dopo aver contaminato dei vaccini con la tossina del teano. Secondo documenti emersi successivamente, i vaccini erano stati prodotti dall’esercito giapponese e contenevano tetano purificato. Si trattò di un esperimento fallito condotto dall’Unità 731 (che si occupava degli esperimenti biologici) sui lavoratori forzati, e che il Giappone cercò di insabbiare. Mochtar e il suo staff scientifico furono arrestati e sottoposti a gravi torture dalla polizia militare giapponese, la Kenpeitai e alla fine Mochtar firmò una falsa confessione. Di circa 280mila romusha reclutati con false promesse, solo 58mila fecero ritorno, ma decine di migliaia di indonesiano morirono dopo essere stati costretti ai lavori forzati, soprattutto per la costruzione di ferrovie che rispondevano ai bisogni logistici dell’esercito imperiale.
Anche Taiwan fu teatro di soprusi. L’isola venne ceduta al Giappone nel 1895 dopo la sconfitta della Cina nella prima guerra sino-giapponese. I taiwanesi inizialmente tentarono di opporsi, proclamando la Repubblica di Formosa e cercando di tornare sotto l’amministrazione cinese, ma la repressione dell’esercito giapponese fu brutale e in alcuni casi criticata anche a livello internazionale per la ferocia con cui vennero rasi al suolo i villaggi delle popolazioni indigene, che abitavano le regioni montane centrali e orientali, ricche di risorse naturali che interessavano a Tokyo.
L’occupazione cercò di sradicare i sentimenti filo-cinesi: gli edifici tradizionali vennero demoliti le città ricostruite secondo l’estetica giapponese. Durante le guerre contro Pechino furono proibiti i giornali in lingua cinese, repressi i culti religiosi locali e incentivato l’uso di nomi giapponesi. Circa 200mila taiwanesi furono impiegati nel sud-est asiatico come manovali e interpreti dell’esercito imperiale. In seguito alcuni di loro furono incriminati nei processi per crimini di guerra.
Ancora oggi l’eredità del colonialismo giapponese segna profondamente il dibattito tra Taiwan e Cina: gli abitanti dell’isola spesso utilizzano espressioni e riferimenti propri della propaganda imperiale nipponica per criticare Pechino, che considera Taiwan una “provincia ribelle” che deve tornare sotto il controllo del Partito comunista cinese.
Anche per questo è significativo che la città di Nagasaki abbia per la prima volta accettato la partecipazione di Taiwan alla cerimonia di commemorazione del bombardamento statunitense del 9 agosto 1945 che pose fine al conflitto mondiale. Il sindaco Shiro Suzuki ha dichiarato che sta valutando come soddisfare il desiderio di Taiwan considerato che Tokyo non intrattiene relazioni diplomatiche con l’isola.
30/10/2018 14:51
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