05/06/2025, 15.13
SIRIA
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Quelli che cercano padre Dall'Oglio. E tutti gli altri

di Alessandra De Poli

Jomana Solman, project manager del Syria Justice and Accountability Center, chiarisce ad AsiaNews che non è stato recuperato alcun corpo dalle aree dove si trovava il gesuita romano rapito nel 2013. L’organizzazione continua a lavorare sulle fosse comuni nel nord-est della Siria, ma l’identificazione dei resti è complessa e costosa. La recente diffusione di notizie false ha alimentato le speranze dei familiari dei desaparecidos.

Damasco (AsiaNews) - Il ritrovamento del corpo di padre Paolo Dall’Oglio era un “fake news” perché “semplicemente non è stato trovato alcun corpo”. Con queste parole Jomana Salman, project manager di Syria Justice and Accountability Center (SJAC) smentisce la notizia circolata nei giorni scorsi sui media italiani riguardo il presunto ritrovamento del gesuita romano, scomparso il 29 luglio 2013 dopo essersi recato nella in un’area allora sotto il controllo dello Stato islamico per trattare la liberazione di alcuni ostaggi. “Non abbiamo lavorato sulle fosse comuni ad al-Furusiya o a Raqqa, quindi non c’è nessun cadavere da identificare”, precisa l’esperta.

Da anni il SJAC lavora per chiarire il destino di centinaia di migliaia di persone di cui si sono perse le tracce durante la guerra civile siriana. Secondo una stima delle Nazioni unite del 2021, si tratterebbe di oltre 130mila individui. Di recente l’attuale governo ha dichiarato che almeno 140mila persone sono state seppellite in fosse comuni, di cui almeno 12mila si trovano nel nord-est a maggioranza curda, ma le cifre potrebbero essere molto più alte.

Il SJAC non ha interrotto la propria attività dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad ad opera di vari gruppi islamisti guidati da Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Tuttavia per il momento l’organizzazione opera solo nelle aree sotto il controllo delle milizie curde: “Abbiamo il permesso da parte dell’amministrazione autonoma di lavorare sulla questione delle persone scomparse, e in particolare su coloro rapiti dall’ISIS, grazie a un memorandum d’intesa”, chiarisce Jomana Salman, sottolineando che nel resto della Siria sono attive altre ong. 

Si tratta di un lavoro estremamente costoso portato avanti grazie alla collaborazione con la Fondazione di antropologia forense del Guatemala (FAFG), altro Paese segnato da decenni di guerra civile e da decine di migliaia di desaparecidos, appartenenti perlopiù alla comunità indigena maya. “Avevamo una partnership con l’Argentina - spiega Jomana Salman - che, però ad un certo punto ha smesso di operare in Siria, per cui ci siamo rivolti al Guatemala perché hanno una lunga esperienza forense e laboratori molto affidabili”.

Ma l’invio di campioni del DNA in Guatemala è solo l’ultimo passaggio: “Il nostro lavoro si concentra in realtà in due fasi precedenti: la formazione di team locali e le indagini contestuali”. Analizzare tutti i resti sarebbe infatti troppo costoso (servono almeno tre campioni della vittima e dei familiari per un costo dai 100 ai 150 dollari), per cui il SJAC, finanziato prevalentemente da Stati Uniti e Germania, ha il compito di direzionare le proprie energie verso i luoghi in cui è più probabile accertare fin da subito la presenza di persone su cui si erano già raccolte informazioni. “Per procedere è necessario avere testimonianze che corrispondono, sia da parte dei famigliari che hanno sporto denuncia, ma anche dei sopravvissuti o di residenti locali, persino di ex combattenti. Una volta raccolte informazioni da almeno tre fonti utilizziamo le immagini satellitari per localizzare i luoghi di sepoltura. Altre volte abbiamo dettagli anche molto specifici sulla fisionomia della persona o sugli indumenti che indossava. Se le varie versioni coincidono possiamo procedere a raccogliere il DNA”.

Nel caso di padre Dall’Oglio, il SJAC è ancora alla fase delle indagini di contesto, che indicano potenzialmente 16 luoghi di sepoltura: “Padre Paolo era conosciuto da molte persone in Siria, per cui abbiamo raccolto molti racconti, ma la maggior parte non erano attendibili, erano informazioni completamente false”, commenta la referente del centro. “Una fonte, per esempio, ci aveva detto che Dall’Oglio era stato arrestato dall’ISIS ad al-Karamah [a est di Raqqa], ma poi era stato spostato in un’altra cittadina. Facendo vari controlli, però, la regione in cui avrebbe dovuto trovarsi padre Paolo era in mano al regime al tempo, per cui non risulta attendibile. Stiamo ancora lavorando su questo, non solo per padre Paolo, ma per tutte le persone scomparse in Siria”. 

Un'attività che anche per Jomana, originaria di al-Hasakah, ma oggi residente in Belgio, spesso si rivela molto doloroso: “Quando ho iniziato questo lavoro pensavo che avere a che fare con i cadaveri e le fosse comuni sarebbe stata la parte più difficile, ma dopo appena tre o quattro mesi ho capito che parlare con le famiglie è molto più impegnativo, perché devi affrontare la loro tristezza e le loro aspettative”. Ferite che in numerosi casi si stanno riaprendo in seguito al cambio di governo: “Adesso sui social circolano tantissime notizie false su cui non c’è alcun tipo di controllo, questo è il problema principale. E quando le famiglie ricevono un’informazione, anche falsa, sentono di dover ricominciare a lottare per ritrovare i propri cari”. 

Nelle aree riconquistate dal governo guidato dal presidente Ahmed al-Sharaa - lui stesso ex combattente di HTS, prima affiliato ad al-Qaeda e poi al sedicente Stato islamico - ci sono altri enti che si occupano dei desaparecidos siriani e ora potrebbero lavorare insieme sotto l’egida delle Nazioni unite, che ha di recente approvato la creazione di un meccanismo indipendente per le persone scomparse (Independent Institution on Missing Persons, IIMP): “Altri team stanno cercando di coordinarsi con l’IIMP in modo che l’Onu possa centralizzare i dati. Per il momento abbiamo segnalato la nostra presenza, però vorremmo anche vedere come procedono le cose”. 

Nonostante la caduta del regime, infatti, buona parte della popolazione esprime ancora diffidenza nei confronti delle autorità islamiste che si sono installate a dicembre. La comunità alawita, in particolare, una minoranza religiosa a cui appartiene la famiglia Assad, negli ultimi mesi ha subito le persecuzioni dei gruppi armati che hanno sostenuto l’ascesa di HTS. Jomana in persona non ha ancora fatto ritorno al suo Paese: “Sono fuggita nel 2014 trasferendomi in Iraq, da dove potevo tornare nel nord-est della Siria senza problemi. Adesso però sto aspettando di ottenere la cittadinanza belga prima di poter tornare”, dice speranzosa la project manager. “Anche se è strano pensare che sono in attesa di un documento straniero prima di rientrare nel mio Paese”.

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