06/04/2005, 00.00
CINA
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Rebiya Kadeer testimonia le violenze di Pechino

In un'intervista rilasciata alla BBC la donna denuncia la situazione degli uighuri in carcere. Per Pechino, invece, la situazione dei diritti umani in Cina è "rosea".

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Non un leader ma "un soldato che combatte per il suo popolo". E' come si definisce in un'intervista Rebiya Kadeer, 58 anni, la dissidente politica di etnia uighur rilasciata dalle carceri cinesi lo scorso 17 marzo dopo 6 anni di prigionia. Nel corso dell'intervista, rilasciata martedì 12 aprile ed oscurata in Cina, la donna denuncia la situazione della sua etnia e testimonia le atrocità che avvengono in carcere.

"Potevo sentire ogni giorno le urla di uighuri che venivano torturati, a volte senza neanche sapere il perché", ha detto davanti alle telecamere. "Una volta – ha continuato – dei carcerieri stavano trascinando di peso un ragazzo verso le camere della tortura. Si è voltato, mi ha visto attraverso le sbarre e mi ha detto 'Madre, cosa ci fai tu qui? Giovani come noi stanno andando in galera proprio per salvare madri come te!'". La donna ha voluto anche chiarire il suo ruolo nella leadership dell'etnia. "Non so molto su come si possa essere un leader. Io credo di essere semplicemente un soldato che lotta per i diritti della sua gente".

Il rilascio di Rebiya Kadeer è avvenuto alla vigilia della visita ufficiale a Pechino di Condoleezza Rice, segretario di Stato americano. La donna al momento si trova negli Stati Uniti e lavora in un'organizzazione fondata dal marito per le libertà civili e l'indipendenza degli 8 milioni di musulmani che vivono nello Xinjiang, regione a nord della Cina.

Human Rights Watch (Hrw) conferma la testimonianza della donna. Ieri ha presentato un dossier  sulla situazione degli uighuri, che contiene ordini ufficiali e denunce interne della pubblica sicurezza cinese. I documenti provano che le violenze e le discriminazioni contro l'etnia sono conosciute e avallate dagli organi di potere centrali. In un ordine, timbrato da Pechino, si chiede "ai genitori o ai tutori legali di impedire ai minori posti sotto la loro custodia l'esercizio di qualsiasi pratica religiosa". Secondo Hrw agli uighuri non è permesso esternare le pratiche religiose, studiare o portare sotto braccio libri di religioni, indossare simboli religiosi. Il governo cinese dà agli imam precise disposizioni su dove i fedeli si possono incontrare e di cosa possono o non possono parlare. Assolutamente impensabile manifestare i propri sentimenti religiosi in luoghi pubblici o statali come uffici o scuole.

Per Pechino, invece, la situazione dei diritti umani e civili in Cina è "rosea". La definizione è contenuta in un Libro bianco rilasciato oggi. Il documento, 41 pagine, è l'ottavo sui diritti umani che il governo emette dal 1991. Secondo il Consiglio di Stato, l'organo del Partito comunista che ha redatto il documento, "l'anno 2004 ha visto un processo di miglioramento effettivo in tutti i campi dei diritti umani, civili e religiosi". "Nell'anno passato – sempre secondo Pechino – il governo ha stretto la morsa contro i funzionari che effettuano violazioni a questi diritti".

La Cina nega la repressione delle espressioni religiose, ma afferma di voler solo difendere lo Stato dalle forze che lottano "per ottenere il separatismo" e "per divulgare l'estremismo religioso".

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