07/11/2025, 12.13
LIBANO - ISRAELE
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Sud del Libano: la raccolta delle olive e l’attesa della pace in un territorio ferito

di Fady Noun

Momento di gioia e condivisione tra generazioni, la coltivazione è regredita per la guerra fra Hezbollah e Israele. L’esercito israeliano, che ieri ha sferrato nuovi attacchi nell’area, soffoca ogni tentativo di ripresa e vieta la ricostruzione dei villaggi di confine e la rinascita delle terre. A dispetto delle difficoltà, per i coltivatori è un modo per affermare “che esistiamo ancora”.

Beirut (AsiaNews) - Come in molti altri Paesi del Mediterraneo, la coltivazione delle olive è profondamente radicata nella storia e nelle tradizioni del Libano. L'olivicoltura è addirittura la prima coltura arborea nazionale e l’autunno è sempre stato, nei campi e nei frantoi sparsi per la nazione, una stagione di festa e condivisione. Katia Kahil, insegnante di francese al Liceo pubblico di Khyam, una municipalità del governatorato di Nabatieh, condivide con AsiaNews i dettagli di questa stagione, appena raccolti dalla viva voce dei proprietari e coltivatori ancora attivi nel Libano meridionale. “Era la stagione della raccolta delle olive e dei frantoi, il momento in cui ci si ritrovava in famiglia e i bambini imparavano i gesti dei nonni” racconta Oum Khalil, abitante di Marjayoun citata dall’insegnante.

“È come se la guerra - aggiunge - avesse spezzato il filo di una tradizione millenaria. Oggi i miei alberi più belli sono dietro una barriera invisibile. Li vedo, ma non posso più toccarli. È come vedere il proprio figlio prigioniero”. Sotto il cielo dell’estrema porzione sud del Paese dei cedri, le piante di ulivo si ergono come ultimi testimoni di una pace ferita. Tra zone minate, terre confiscate e campi deserti la vita resiste ancora, silenziosa ma tenace, anche se il fragore degli ordigni sembra destinato a continuare. Ieri, infatti, l’esercito israeliano ha sferrato pesanti attacchi dopo aver emesso ordini di evacuazione in diverse località per colpire “postazioni di Hezbollah” che starebbe cercando di “ricostruire le sue capacità militari”. Nei raid, condannati con forza dal presidente libanese Joseph Aoun, è rimasta ferita una persona. 

Restrizioni soffocano la ripresa

Tuttavia sotto il manto di una fragile tregua che ieri ha vacillato, le restrizioni soffocano ogni ripresa. L’accesso ai frutteti, vicini alla Linea Blu, richiede un’autorizzazione speciale rilasciata dall’esercito libanese in coordinamento con la Forza Interinale delle Nazioni Unite (Unifil). Il tutto avviene sotto l’occhio vigile dell’esercito israeliano. Il nome del proprietario e il numero di immatricolazione del veicolo utilizzato devono essere indicati. “Abbiamo avuto solo sei giorni per raccogliere, arare e potare, un lavoro che normalmente richiede un mese” spiega Nabil. “E anche durante questo breve periodo, un drone israeliano ha lanciato una bomba sui coltivatori a Khyam”.

Più di 60mila ulivi sono stati distrutti dalla guerra. “Quest’anno abbiamo perso tutto” racconta Rose, di Deir Mimès. “Gli alberi - lamenta - non vengono più potati, le olive seccano sui rami e quasi nessuno osa avventurarsi negli uliveti a causa delle mine”. Va peraltro detto che a questa data, in Libano, il cielo è ancora azzurro e terso e in tutta la regione si teme un nuovo anno di siccità simile a quello precedente, in cui il tasso di precipitazioni è sceso al 25% della media.

Procedura assurda, peso quotidiano

“In diversi villaggi di confine, alcune zone sono ora classificate come rosse, ovvero vietate anche all’esercito” osserva la nostra guida. Dopo una spirale di violenza che ha devastato villaggi e terreni agricoli, le cicatrici della guerra rimangono visibili a Deir Mimès, Khyam, Houla, Blida e Mays el Jabal. “Molti terreni sono stati rasi al suolo o bruciati, altri sono semplicemente inaccessibili. Quest’anno non vi è quasi nessun raccolto” ci spiega il sindaco di Kfar Kila, Hassan Chehit.

Acquistare, più che produrre

Gli agricoltori, dal canto loro, si affannano per mantenere una parvenza di attività. “Andare nei campi costa troppo e mette in pericolo la nostra vita. Quindi, come molti altri, preferiamo acquistare le olive o l’olio più che produrli” confida Abbas Fakih, un proprietario terriero. Abou Fadi, di Deir Mimès, deplora la perdita di vasti oliveti di famiglia distrutti dai bulldozer: “Anche le strade di accesso - spiega - sono state rase al suolo. La strada che porta alle nostre terre è letteralmente disseminata di ostacoli”. 

La frattura è allo stesso tempo economica, sociale e morale. I frantoi sono fermi, le famiglie private dei loro redditi, i volti cupi, i cuori scoraggiati. Il litro d’olio supera ormai i 20 dollari: un lusso per i consumatori di una regione un tempo largamente produttiva. “Prima della guerra, tutto il villaggio viveva del raccolto. Quella attuale - confida Linda, produttrice di Khiam - è una stagione fantasma”. “Quest’anno abbiamo raccolto solo 250 chili” aggiunge Khaled, coltivatore a Blida. “Nel 2022, il nostro frutteto di 150 ulivi produceva dieci volte di più”. Questo calo di produttività, spiega Katia Kahil, è dovuto al fatto che “gli ulivi non sono stati né raccolti, né potati lo scorso anno”.

Terra ferita, ma viva

“La guerra non ha solo causato lo sfollamento delle persone, ma ha anche ferito la terra” racconta la nostra guida. Ettari di uliveti incendiati, terreni impoveriti, radici soffocate dai frammenti di granate. Eppure, tra le rovine, alcuni alberi rifioriscono. Le associazioni locali cercano di sostenere gli agricoltori sminando i terreni e rilanciando la potatura e la coltivazione. “Ricominciamo a potare gli alberi, a preparare la terra. È un inizio, una ventata di novità” spiega Linda, una produttrice di Kleyaa. Nonostante i pericoli, alcune famiglie continuano a varcare con discrezione le zone proibite per raccogliere qualche oliva, a quanto pare. “È il nostro modo di dire che esistiamo ancora” confida Abdallah, con un’oliva verde in mano. “Anche se bruciato, l’ulivo vive ancora”, sussurra Jamil, agricoltore a Houla. “Aspetta - conclude - la pace per rifiorire. Come noi”.

(Ha collaborato Katia Kahil)

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