20/12/2025, 08.55
MONDO RUSSO
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Il senso di colpa e la nuova barbarie nella Russia di Putin

di Stefano Caprio

Presentata l’ultima opera di Viktor Erofeev, voce critica della guerra fin dalla Crimea. Reprimere il senso di colpa è diventato un fenomeno automatico. Il crollo dell’Unione Sovietica e la Chiesa ortodossa che non si è mai scusata per la collaborazione col regime ateista. Le profezie di Khruščev sulle guerre russe in Georgia e in Ucraina e il fallimento delle opposizioni all’estero. 

Lo scrittore russo Viktor Erofeev, una delle personalità più significative della letteratura russa post-sovietica che vive a Berlino dal 2022, non approvando la politica aggressiva del Cremlino fin dall’annessione della Crimea, ha presentato a Praga il suo ultimo libro La nuova barbarie: un romanzo di fantasia sulla colpa della Russia. Si tratta di una riflessione sulla coscienza attuale dei russi e sulle sue radici storiche e psicologiche, ma anche su quell'essenza eterna del nazionale che oggi si fa attuale, scandendo il ritmo dei nostri giorni, “dell'eternamente selvaggio nell'anima russa, del selvaggiamente eterno”.

Erofeev inizia con una storia parabolica sulla tazza di sua nonna, simbolo del temperamento della Russia: “Mia nonna, Anastasia Nikandrovna, era una bellezza dalle guance rosee, ma anche le bellezze a volte rompono le tazze”. La tazza blu le scivolò dalle mani, cadde sul pavimento della cucina e si ruppe, frantumandosi in mille pezzi, lasciando solo il manico rotto, in un angolo, nella sua inutile integrità. La nonna non ha mai detto: “Ho rotto una tazza”. Lo diceva esattamente così: “Si è rotta la tazza. Come se una tazza potesse rompersi da sola. Certo, avrebbe potuto rompersi accidentalmente, ed è esattamente quello che è successo. Immagino mia nonna, disperata, in preda a un impeto di rabbia (aveva un temperamento feroce), che rompe deliberatamente la tazza, ma non la immagino mentre decide di scusarsi: ho rotto la tazza”.

Questa tazza rotta incarna il concetto di colpa russo, e il rifiuto categorico di riconoscerlo, forse perché la punizione per un crimine commesso in Russia non è mai proporzionata al crimine stesso, ma è sempre maggiore “come l'impasto che fuoriesce da una pentola, e trabocca nell’esistenza”. Una tazza in una famiglia povera è un tesoro, e “la povertà è il vizio della Russia; se distruggo un tesoro di famiglia, ho commesso un crimine familiare e sarò punito per questo, ma non posso comprarmi una tazza nuova. Non ne ho i mezzi. Sposto la colpa, se non su qualcun altro, sulla tazza stessa. Mi è scivolata dalle mani e si è frantumata”. La parabola indica che reprimere il senso di colpa dalla coscienza è diventato un fenomeno automatico per i russi: a causa di una tazza rotta, possono perdere tutto. L’accusa di aver rotto una tazza può riversarsi in tutti gli altri ambiti dell’esistenza. Non c'è da stupirsi che nella conversazione quotidiana russa si usino spesso i concetti di “sempre” e “mai”. Non ti lavi mai bene le mani prima di mangiare, non saluti mai la mia metà della famiglia.

Nessuno si è assunto la colpa per il crollo dell’Unione Sovietica, né i capi di partito, né i militari, e Vladimir Putin ripete spesso che si è trattato della “più grande tragedia dei nostri tempi”, anche se non si sa chi ha mandato in bancarotta l’economia socialista, chi ha voluto gettarsi nella corsa agli armamenti per superare l’Occidente nelle “guerre stellari”, chi ha invaso l’Afghanistan generando una catena infinita di rancori e vendette, da cui si sono sviluppati i movimenti radicali islamici, l’attentato alle Torri Gemelle di New York, le guerre dell’Isis e tanto altro ancora. La Chiesa ortodossa non ha voluto scusarsi per la collaborazione al regime ateista, che la usava per addormentare le coscienze dei pochi fedeli rimasti e sostenere la propaganda ideologica a livello internazionale, e dalla rinascita religiosa spontanea si è impadronita delle coscienze dei nuovi fedeli per rimetterli sotto il controllo dello Stato. Proprio in questi giorni il patriarca Kirill si è vantato che “nessun’altra città al mondo vede tante chiese in costruzione come Mosca”, dove a pregare va sempre meno gente, e solo per sostenere la guerra.

Secondo Erofeev “scaricare sugli altri le proprie colpe è lo sport nazionale russo, perché gli uomini forti non sono portati a chiedere scusa: prendersi la responsabilità per la tazza rotta è una cosa da stupidi”. Lo scrittore appartiene alla generazione “post-modernista” a cavallo del XX e XXI secolo, che descrive la realtà con immagine utopiche rivolte al passato più che al futuro fantascientifico. Già nel 1982 aveva formato un gruppo letterario chiamato Eps dalle iniziali del suo cognome insieme a quelli del concettualista Dmitrij Prigov e del “profeta del putinismo” Vladimir Sorokin, autore nel 2006 del “Giorno dell’Opričnik”, in cui esponeva satiricamente il corso della politica russa trasformando Putin nel capo degli opričniki, le guardie di Ivan il Terribile, il crudele Maljuta Skuratov, in una Russia che si isola dal resto del mondo innalzando nuovi muri verso Occidente e riscoprendo la sua natura asiatica. Oggi i russi gli chiedono di non scrivere altri romanzi del genere, per evitare che la realtà superi di molto la fantasia.

Lo scrittore si distingue dal giornalista che vuole “andare fuori verso il pubblico”, mentre invece preferisce “chiudersi in una stanza dove può criticare tutto e tutti, perché al chiuso egli è libero”, una condizione che riporta all’atteggiamento dei dissidenti sovietici dell’epoca del samizdat, che sta tornando sempre più attuale. Il padre di Erofeev aveva lavorato come interprete di Stalin, e per questo era stato poi mandato come diplomatico a Parigi, dove il piccolo Viktor è cresciuto con la convinzione che “l’Europa è la mia casa, è la mia stanza libera”, senza per questo rinunciare alla propria identità russa. Da questa convinzione egli trae le ragioni della sua natura di scrittore, che non è quella di“uno che vuole scrivere, ma che vuole vivere ogni emozione… scrittori si nasce, non si diventa”. Nel 1975 si laureò con una tesi che suscitò un certo scalpore nell’Urss, sul tema “Dostoevskij e l’esistenzialismo francese”, e il suo primo saggio a 22 anni fu sul “Marchese de Sade, il sadismo e il XX secolo”, pubblicato sulla rivista “Questioni di letteratura” dopo lunghe discussioni e verifiche, accettato dopo l’inserimento di una citazione di Engels sul sadismo.

Ricordando i periodi passati, da lui vissuti tra l’Europa e l’Urss, Erofeev afferma che ai tempi di Brežnev c’era molta più libertà che nella Russia di Putin, in quanto “sotto Brežnev non si cercava più di costruire il comunismo, ma era il comunismo che costruiva case di lusso per gli alti funzionari”. Oggi invece “siamo finiti nel buio della notte, non ci sono più nemmeno analogie con il passato, forse soltanto con gli ultimi anni di Stalin”. Prima del Varvarstvo, il libro sulla barbarie della Russia, egli aveva scritto il Velikij Gopnik, applicando la definizione sovietica di gopnik, il “teppista di strada”, alla personalità del presidente Vladimir Putin, come simbolo della “stupidità sempre più diffusa del nostro tempo, da cui nasce la barbarie in cui viviamo”. I gopniki hanno un linguaggio volgare e sfrontato, come Putin che in questi giorni accusa gli europei di essere “porcellini alla corte di Biden”, e che la Russia non avrebbe mai potuto diventare parte della civiltà occidentale. “Non esiste alcuna civiltà, ma solo fetida degradazione”, come ha ripetuto in vari modi alla “linea diretta” del 19 dicembre coi cittadini, rispondendo anche alle domande dei bambini.

D’altra parte, la barbarie è un fenomeno ricorrente nella storia, dai tempi dell’antica Grecia e della dissoluzione dell’Impero romano, e oggi si ripete in modalità “assolute e universali” alla fine di una civiltà ultra-liberale, formatasi dopo le guerre mondiali. In questo lo scrittore identifica la “colpa russa”, avendo inaugurato la stagione della barbarie a cui oggi si stanno adeguando tutti gli altri popoli. Nel romanzo, la Colpa Russa si personalizza in una giovane donna di 32 anni (il periodo post-sovietico), moglie del narratore, che “esprime amore e odio senza ragioni logiche”, una figura dimostrativa dell’incubo vissuto oggi dai russi.

Si ricorda quando il dittatore georgiano Josif Stalin morì nel 1953, e il suo successore, l’ucraino Nikita Khruščev, si rivolse alla popolazione con l’appello “cerchiamo almeno di non ammazzarci l’un l’altro”, profetizzando le recenti guerre russe in Georgia e in Ucraina. Allora la successione dei capi di partito cercava di esprimere qualche sentimento di umanità, da Brežnev ad Andropov e Černenko fino a Gorbačëv, mentre oggi “il tempo lavora contro di noi, la speranza è che quello che stiamo vivendo finisca il prima possibile”. Si dice infatti che “la speranza è l’ultima a morire”, mentre secondo Erofeev in Russia “la speranza muore per prima”. Anche le opposizioni all’estero, che in questi giorni stanno litigando e lanciandosi reciproci improperi, non rappresenta più una vera intelligentsija, al massimo è “una classe media di buona istruzione”, ma del resto “non è che in Francia o altrove si veda in giro un’autentica classe di intellettuali che possano salvare il mondo”.

Erofeev è comunque convinto che “la Russia non è ancora morta, perché la Russia è tanta roba, non può morire del tutto”. Nessuno può dire quale Russia ci sarà dopo la guerra, ammesso che la guerra in qualche modo finisca o almeno si interrompa, cosa che Putin non vuole in nessun modo, ma come era accaduto alla fine dell’Urss, “nessuno si prenderà la colpa dei disastri avvenuti, saremo tutti una pagina bianca su cui scrivere un nuovo romanzo”.

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