16/09/2023, 09.00
MONDO RUSSO
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La ‘deriva orientale’ russa nell’abbraccio mortale di Putin a Kim

di Stefano Caprio

Il leader del Cremlino ha accolto il dittatore di Pyongyang per trattare armi e tecnologia di basso livello. La distanza di Xi Jinping dai due “teppisti” e il gergo da “malavita” usato dal presidente russo nell’incontro. Il sostegno “materiale e spirituale” alla guerra santa del patriarca Kirill. 

Il Forum economico orientale di Vladivostok voleva essere, nelle intenzioni di Vladimir Putin, l’esaltazione del nuovo ruolo geopolitico della Russia, la celebrazione della “svolta verso Oriente” per dichiarare vittoria nella guerra contro l’Occidente e la globalizzazione, vero obiettivo dietro il fragile paravento della povera Ucraina. L’evento si è però rivelato assai meno simbolico e apocalittico, evidenziando piuttosto una “deriva orientale” del mondo russo e del suo leader, sceso sotto il livello perfino del “paria mondiale” per eccellenza, il dittatore nord-coreano Kim Jong-un.

La narrazione dell’incontro tra Kim e Putin ha superato anche le leggende del viaggio del 1950 in Russia di Mao Zedong, quando il “quattro volte grande” Maestro, Capo, Comandante e Timoniere percorse quasi diecimila chilometri nel vagone blindato per incontrare Iosif Stalin, il Padre dei Popoli, in una fusione dei culti della personalità, a tre mesi dalla rivoluzione cinese e a cinque anni dalla vittoria dell’Unione Sovietica sul nazismo. Fu quello il solenne inizio della Guerra Fredda tra Oriente e Occidente, anche se Pechino e Mosca cominciarono presto a guardarsi in cagnesco tra di loro, evidenziando una competizione ben più globale di quella della Russia con la stessa Europa.

Il treno di Kim ha percorso meno di settecento chilometri a 60 all’ora per coprire la distanza tra Pyongyang e Vladivostok, mentre il vero padrone dell’Asia, Xi Jinping, si è ben guardato dal farsi vedere in mezzo ai due “teppisti”, che dovevano parlare di scambi di armi e tecnologie a basso livello. L’occasione in effetti ha tirato fuori tutto lo spirito del gopnik che è in Putin, il quale girava per le strade di Leningrado per affermarsi tra gli altri piccoli delinquenti, e oggi probabilmente voleva vantarsi con il “compagno Kim” di aver fatto fuori perfino “l’amico Ženja”, quell’Evgenij Prigožin che aveva cercato di fare lo sbruffone ancora più di lui.

Il capetto coreano ha cercato di elevarsi alla solennità della “guerra santa della Russia contro l’Occidente globalista”, ma le dichiarazioni di Putin lo hanno trascinato fino ai bassifondi del gergo da malavita, con cui il padrino del Cremlino si esprime quando si sente a suo agio. Sui capitali che fuggono dalla Russia, egli ha ammonito a “non pestare sempre i piedi sullo stesso rastrello”, un’espressione minacciosa nei confronti di coloro che “hanno fregato i soldi onestamente guadagnati” con varie sanzioni e macchinazioni, ma rassicurando che “sistemeremo tutto, so che mi capiscono quelli a cui mi rivolgo”.

Agli imprenditori Putin rivolge assicurazioni tipicamente “di famiglia”: “non ci sarà nessuna de-privatizzazione, la procura farà il suo lavoro con chi se lo merita, ma nessuno si deve spaventare, basta osservare le regole”. Infatti i passaggi di varie aziende e compagnie alla proprietà dello Stato sono soltanto “procedure previste dalla legge”. Anche le dichiarazioni contro la guerra, come quella del fondatore di Yandex Arkadij Volož, sono solo “tentativi di questi personaggi per salvare il proprio business, tanto più che hanno preso e se ne sono andati, decidendo di legare il proprio destino ad altri Paesi… che Dio conservi loro la salute e una buona vita in Israele!”. La “deriva putiniana” si rende particolarmente evidente nelle espressioni di sapore antisemita, che sono per lui l’esempio tipico di “tradimento della patria”.

Secondo il leader russo infatti “ogni uomo decide dentro di sé che cosa vuole essere, se ha qualche senso di autocoscienza nazionale, o se vuole soltanto imitare altri modelli, rinunciando ad essere un russo nato in Unione Sovietica, e cercando di diventare una maschera di altri”. E qui l’ira di Putin ha preso improvvisamente la direzione dei tempi in cui egli stesso è salito al potere, favorito da un nume tutelare che oggi diventa il “traditore per eccellenza”, il politico ed economista Anatolij Čubajs. Fuggito all’estero poco dopo l’invasione dell’Ucraina, sopravvissuto anche a un tentativo di avvelenamento, il grande tessitore del sistema eltsiniano ha pubblicato di recente un articolo scientifico in cui viene presentato come “osservatore indipendente di Glasgow”, mandando Putin su tutte le furie: “Non capisco perché Anatolij Borisovič cerchi di nascondersi, mi hanno fatto vedere delle sue foto in cui si presenta come un Moiša Izrailevič”, intendendo con questo “un ebreo in fuga”, e deridendolo per i suoi scarsi successi nel campo delle nano-tecnologie, settore che Čubajs ha curato negli ultimi anni della sua eclettica e trentennale partecipazione al potere.

La fuga di Čubajs ha ispirato il padrino a prendersela anche con gli “operatori della cultura”, quei “circa 160-170 che se ne sono andati all’estero” dimenticando qualche zero, naturalmente soltanto per “le cose materiali da comprare allo shopping, case e appartamenti nelle zone turistiche”. Putin assicura che “nessuno da noi disturba quelli che non sono d’accordo con le autorità russe, ma loro hanno preferito andare, Dio sia con loro”, tanto più che almeno eviteranno di “scavare nel cervello di milioni di nostri cittadini, proponendo qualche loro valore non tradizionale”. Anche la legge russa sugli “agenti stranieri” non è una minaccia per nessuno, “è un calco di quella in vigore negli Usa dal 1938, solo molto più liberale”, e se qualche dettaglio va sistemato “ascoltiamo i suggerimenti degli attivisti umanitari, e alla fine ci atteniamo alle sentenze dei tribunali”.

Infine, sulla guerra in Ucraina ribadisce che “non possiamo smettere di combattere quando il nemico scatena la controffensiva, noi non siamo dei trozkisti, che non hanno uno scopo finale”. In questo può contare sul sostegno morale e spirituale del patriarca Kirill, che negli stessi giorni ha presieduto le solenni celebrazioni in onore del santo principe Aleksandr Nevskij, vincitore sugli svedesi e teutonici e amico degli invasori mongoli. Le sue spoglie nella Lavra a lui dedicata, in fondo alla Prospettiva Nevskij che attraversa i palazzi scenografici di San Pietroburgo, sono state di nuovo collocate nel sarcofago d’argento restituito dal Museo dell’Ermitage, senza tante proteste dei colleghi della Galleria Tretjakov come era invece avvenuto per l’icona della Trinità di Rublev.

Ispirandosi al condottiero duecentesco, ha proclamato il patriarca, “i cittadini della Russia devono ergersi a difesa della Patria, affinché possa uscire vittoriosa dalla lotta iniziata dalle forze dal male”. Bisogna essere pronti “nell’ora decisiva”, ha ricordato Kirill durante il sacro corteo per le vie della “capitale del nord”, città natale del presidente e del patriarca stesso, che lui vorrebbe fosse proclamata anche “capitale della cultura” russa. Il capo della Chiesa ortodossa incita alla nuova mobilitazione generale, per risolvere definitivamente la guerra: “Si devono mobilitare i soldati e le forze politiche, e anche la Chiesa dev’essere mobilitata, anzitutto per offrire le preghiere a sostegno dei nostri capi, dell’esercito, e per essere in prima linea accanto a loro”, magari con nuovi cappellani militari, anche perché qualcuno di essi è già caduto eroicamente al fronte.

Il patriarca ricorda ai fedeli ortodossi che “bisogna difendere la patria non soltanto dai nemici esterni, ma anche da quelli interni… la fede è quella forza che può mobilitare tutte le altre energie della persona!”. Mentre l’inviato del papa, il cardinale Zuppi, cercava a Pechino qualche sostegno per le missioni umanitarie, la distribuzione mondiale del grano e in qualche modo fermare la guerra; dalla Russia - dove presto potrebbe tornare - giungono solo proclami roboanti di conflitto globale e “metafisico” su tutti i fronti, dall’Ucraina a Vladivostok, al posto dell’unione dei popoli “dall’oceano Atlantico all’oceano Pacifico”, come auspicavano in passato i papi e i politici più sognatori. La speranza è che non si possa andare più in basso di quanto abbiano mostrato i compagni Kim, Volodja e Kirill, e che da questo livello si cominci a risalire, un poco per volta.

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