21/01/2009, 00.00
GIAPPONE
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Il futuro del Giappone, sbattuto dallo tsunami finanziario

di Pino Cazzaniga
Decine di migliaia di disoccupati; oltre 15 mila ditte andate in bancarotta. La maggior parte della gente guarda con pessimismo al futuro. Per alcuni analisti occorre puntare non sulla finanza e i meccanismi di mercato, ma sull’uomo e la qualità della vita.

Tokyo (AsiaNews) - Terminate le vacanze di capodanno il Paese riflette sullo tsunami finanziario mondiale che ha scosso dalle fondamenta il suo sistema economico. A livello nazionale è in atto una mobilitazione delle forze intellettuali, economiche e governative per far fronte alla più grave crisi che ha colpito il paese dalla fine della guerra. La popolazione vacilla tra panico e la speranza.

La caratteristica fondamentale dell’economia giapponese non sono gli stocks, ma il lavoro intelligente e organizzato dei suoi cittadini. Se a questi viene meno il lavoro sono finiti e la nazione va in recessione. Come abbiamo già indicato su AsiaNews, in dicembre il ministero del lavoro ha previsto che entro la fine dell’anno fiscale (marzo 2009) 85.000 operai avrebbero perso il lavoro; ora gli esperti assicurano che la cifra dovrà essere raddoppiata.

Le statistiche indicate, però, riguardano solo i lavoratori giapponesi. Peggiore è la sorte di quelli stranieri. In Giappone lavorano con contratti a breve o a lunga scadenza 486.000 stranieri: la maggior parte sono cinesi (43%), seguiti dai brasiliani (20%) e dai filippini (8%). Verso la fine dell’anno scorso 4.300 stranieri hanno perso l’impiego.

Ma è soprattutto il numero delle ditte fallite nel 2008 che mostra quanto la crisi economica mondiale ha colpito l’economia giapponese. Secondo i dati dell’istituto di ricerca Shoko (Tokyo) 15.646 ditte sono andate in banca rotta e le previsioni per il 2009 sembrano peggiori.

La caduta a capofitto della Toyota e della Nissan, due tra le fabbriche automobilistiche più solide, è simbolo del grave deterioramento della seconda potenza economica del mondo: la Toyota, che nel 2007 aveva registrato un profitto di 2.270 miliardi di yen, ha chiuso il 2008 con un deficit di 150 miliardi di yen, e la Nissan, invece del profitto previsto di 550 miliardi di yen, ha subito una perdita di decine di miliardi. Le cause del disastro sono la svalutazione del dollaro e il crollo delle esportazioni in USA.

Gli analisti giapponesi, all’unisono con i colleghi di tutto il mondo, hanno attribuito agli Stati Uniti la prima responsabilità dello tremendo tsunami finanziario, pur rispettando  la proverbiale etichetta della loro cultura.

 La sindrome della disperazione

Il pessimismo è il sentimento che sembra prevalere nei giapponesi. Gli analisti responsabili si sforzano di ovviarvi aprendo i cuori alla speranza. Il quotidiano The Japan Times lo fa citando un articolo di Tom Petrunogiornalista del The Times . Secondo il saggista ci sono due pessimismi circa la crisi finanziaria: un senza speranza e uno aperto al futuro. Secondo il primo oggi ci troviano di fronte non solamente alla recensione o depressione ma alla fine dell’economia americana e non si vede via d’uscita. Lo chiama “Armageddonismo”, ispirandosi a Michael Panzer, un  veterano di Wall Street, autore di un libro intitolato “Financial Armageddon”.

L’espressione, presa in prestito dal libro dell’Apocalisse, letto secondo un letteralismo fondamentalista, è pericolosa, perché toglie la speranza. E difatti l’idea di un imminente cataclisma è diventata popolare, complici molti siti internet.  Costruttivo è invece il pessimismo di coloro che sono aperti al futuro. Anch’essi sono d’accordo nel ritenere che, ora, non c’e spazio per l’ottimismo. Si prospettano tempi duri. Ma con altrettanta convinzione affermano che cio’ che è finito non è il mondo ma l’epoca della fede indiscussa nel capitalismo autoregolantesi dove i numeri (denaro) senz’anima hanno preso il sopravvento sull’uomo

 Abbandoniamo le vie dell’utopia

Nel campo dei pessimisti aperti alla speranza si pone il professor Takamitsu Sawa, membro dell’istituto di economica dell’università’ di Kyoto. Secondo lo studioso, la crisi attuale, pur essendo molto dolorosa, crea le condizioni per creare una nuova civiltà industriale a servizio dell’uomo. La sua tesi riscuote credito e infonde ottimismo, perché il professore la propone da decenni e perché se l’e’ formata riflettendo, volta per per volta, sullo svolgersi della vita della sua nazione.

Pur incline al socialismo negli anni sessanta, non si è mai lasciato condizionare dalle ideologie ma ha messo l’uomo al centro del suo impegno intellettuale. “Da molto tempo, ha scritto, vado dicendo che il secolo 20mo è stato un’epoca dell’utopia, mentre il secolo 21mo sarà un età senza utopia”.

Il suo argomentare non è frutto di qualunquismo, perché per Sawa utopia significa ideale immaginario. Lo è stata l’utopia comunista che ha dominato gran parte dell’umanità’ per tre quarti del secolo 20mo e lo è stata l’utopia del “fondamentalismo del puro mercato” che ha avuto come propugnatori in Europa il primo ministro inglese Margaret Thacher e in Giappone gli ex primi ministri Yasuhiro Nakasone dal 1982 e Junichiro Koizumi dal dal 2001. Gli spendaccioni americani, europei e giapponesi che negli ultimi 25 anni si sono lasciati ingannare dal meccanismo del “prendere in prestito e spendere” ne hanno tragicamente rivelato l’inconsistenza.

Sawa non condanna il capitalismo in sé. Solo esorta a investire il denaro dove realmente può fruttare cioè nell’uomo e nella qualità della vita, invitando governi a nazioni ad affrontare sinceramente e con concretezza il problema del risanamento dell’ambiente del pianeta. “Da molto tempo, ha scritto, vado dicendo che il tema centrale del secolo 21mo sarà la protezione dell’ambienteLa crisi finanziaria che ha provocato rovine in tutto il mondo sembra segnare la fine della civilizzazione del petrolio e della automobile del 20mo secolo e l’inizio di una nuova civilizzazione guidata dalle industrie del verde”

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