07/06/2017, 11.02
GIAPPONE
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Padre Mario Bianchin: Portare ai giapponesi il Cielo e la voce di Dio

Il suo primo contatto nel Sol Levante è stato con l’impermeabilità verso i ragionamenti di fede.  I giapponesi sono unici e diversi. Ma anche per loro il cristianesimo è l’opportunità di una vita dal volto più umano

Roma (AsiaNews) - “Il Giappone mi apparve così diverso da come me l’ero immaginato”. E’ la prima vivida impressione di padre Mario Bianchin, da Treviso, 76 anni, 45 dei quali nel Paese del Sol Levante, gli ultimi quattro da superiore regionale del Pime, una vita da missionario. E' in Europa per qualche settimana, prima a Roma poi in Irlanda dove accompagna un gruppo di giapponesi. Oggi opera nella diocesi di Yokohama, città che ormai è un tutt’uno con la megalopoli di Tokyo. Tuttavia, ha vissuto a lungo nelle aree rurali: laddove, riconosce, almeno “i legami” con la tradizione e tra le persone “tengono un po’ di più”. Ha scoperto il Giappone dopo un periodo ad Hong Kong. In Asia c’è arrivato via Oceano Pacifico, dopo aver discusso una tesi di laurea sui mass media a Los Angeles. Dove era approdato a 20 anni, nel 1961, “quando John Fitzgerald Kennedy era appena stato eletto presidente”, ricorda.

Padre Bianchin, in che senso i giapponesi le sono apparsi diversi?

Nella loro dimensione pubblica e sul lavoro sono occidentali a tutti gli effetti, ma quando ritornano a casa indossano i costumi giapponesi. Propri come se vivessero in due mondi differenti. Ecco, recarsi in Giappone, è trovarsi di fronte ad una realtà che evolve all’esterno, ma non cambia mai nei suoi fondamenti.

Aveva manifestato il desiderio di arrivare in Giappone?

Sì, l’ho desiderato. Ai miei tempi di solito si andava in missione nei cosiddetti Paesi sottosviluppati. Il Giappone era di certo un Paese sviluppato eppure non era cristiano. Mi dicevo: perché sono tanto istruiti e non sono cristiani? Questo per me rappresentava un profondo interrogativo. Una questione irrisolta.

Allora partiamo dall’inizio…

Sono arrivato in Giappone nel 1972. Non parlavo il giapponese. Dopo una settimana incontrai un uomo che parlava un po’ di inglese imparato in Siberia, dov’era stato prigioniero di guerra. Una normale conversazione. Mi chiese cos’ero venuto a fare lì. Quando glielo spiegai, mi obiettò: “Deve sapere che noi una religione già ce l’abbiamo. Pensavo fosse venuto ad insegnare l’inglese”. Il contraccolpo fu pesante.

Come ha deciso di affrontare questa impermeabilità dei giapponesi?

Mettendo in discussione tutti gli schemi che mi ero prefissato. Imparai ben presto che nella missione come nella vita ciò che vale in un posto o in una situazione non va bene nell’altro. Ricordo, per esempio, che mi colpì l’assenza del problema della frattura tra fede e vita. Un problema culturale del tempo che papa Paolo VI aveva dovuto affrontare nella sua enciclica Ecclesiam Suam. La si definiva “dicotomia” fra fede e cultura appunto. Tuttavia, in Giappone non ho trovato niente di tutto questo. Lì, la società funzionava su due livelli, quello pubblico e quello privato, diversi fra loro, ma entrambi molto concreti. Nessun tipo di speculazione intellettuale o religiosa. Un solo grande interesse per la scienza e la tecnologia, in cui i giapponesi eccellono. Ma quando si portavano altri argomenti, al massimo i miei interlocutori annuivano, per pura gentilezza, ma si vedeva che non erano affatto interessati.

Perché secondo lei?

Dopo tanti anni ho compreso che nella storia giapponese non c’è mai stata davvero l’affermazione a livello sociale e religioso dell’uomo, inteso come singola persona, come unicità. Sappiamo che è soltanto nel cristianesimo che la persona assume la dimensione straordinaria e propria del suo essere. Sappiamo anche che alla radice di questo problema c’è la comprensione di Dio. Alcuni giapponesi dicono che loro credono in un Dio “piccolo”: significa che nella loro percezione religiosa Dio non è un “Altro da sé” che si fa presente all’uomo. Perciò si tende a fare un po’ di confusione su chi sono loro e chi è Dio.

Come mai le conversioni sono rare ?

Spesso sono entusiasti di ciò che leggono nel Vangelo. C’è evidente corrispondenza con il loro cuore. Sono attratti da quei valori sempre nuovi, li trovano belli e commoventi, li colpisce soprattutto l’amore gratuito. Tuttavia il contesto è schiacciante. I convertiti si ritrovano soli e siccome non hanno un concetto forte della persona è per loro più difficile andare avanti. Così colta la sentita ammirazione per il cristianesimo, capita di sentirsi dire: non è per me, o meglio, per noi.

Che vie ha scelto?

Ho scelto di indicare il Cielo. O la voce di Dio (“Io sono la voce”, dice Giovanni Battista). Il riferimento costante dei giapponesi è la natura, l’ineluttabilità della natura, il rinnovarsi, il risorgere. La loro percezione non è mai astratta o intellettuale, ma fenomenologica. Va detto che sono magistrali nello scattare un’istantanea del fenomeno. Il significato delle antiche poesie Haiku (per esempio quella celeberrima di Matsuo Basho “Il vecchio stagno/la rana salta/tonfo nell'acqua”) si coglie solo così. Credo che ancora corrispondano all’animo giapponese. Nell’arte, nei film, nella letteratura, nella musica (per esempio nelle canzonette Enka), la forma è già il contenuto. Lì si esprimono molto bene i sentimenti, ritenendo che sia qualcosa di troppo tentare di tradurli in pensieri e deduzioni. Tutto ciò continua a rappresentare il nutrimento di una comune sensibilità. Tuttavia se non vedi la natura come opera provvidenziale di Dio creatore non c’è speranza, ma soltanto il fatalismo.

E' questa la causa dei tanti e gravi problemi sociali che vive il Giappone?

Questo è lo sfondo. Si prenda il caso tragico ed emblematico dei molti suicidi. Ciò che mi ha sempre colpito nella loro analisi profonda sono le motivazioni che giudico superficiali. Seppure siano drammatiche quando manca la percezione di un Dio onnipotente. Un giovane che si è tolto la vita ha scritto di voler premere il tasto “reset”. Come se si trattasse di un computer. Per riavviare tutto. Per cancellare il passato.

 

Nel libro “The vanished”, pubblicato di recente, si parla degli johatsu, ossia dei giapponesi che evaporano, che spariscono cancellando la loro identità per ripartire da capo sfruttando la legge sulla privacy. Lo farebbero perché tormentati dalla vergogna per aver perso il lavoro, un matrimonio fallito o un debito…

Ogni giapponese si concepisce nel suo ruolo e nel  posto che gli è stato assegnato. Se non è funzionale a ciò non si sente degno di essere giapponese. Non importa tanto il prestigio della carica o del ruolo ricoperto, ma il vanto è quello di essere funzionali nel posto assegnato qualunque esso sia. Anche negli affetti, per esempio fra marito e moglie, si registra questo aspetto di riconoscenza del posto assegnato, del valore del legame, e di resistenza di fronte alle difficoltà della vita. La funzionalità è il segno della vitalità della persona. Tant’è che per molti è considerato un disonore avere degli handicappati in famiglia. Tra l’altro vige il principio di cercare di non diventare mai un peso uno per l’altro. Più uno ha forza ed energia, maggiore è l’onore per lui. Ma non si può reggere da soli a tutto ciò. E qui si capisce come la fede cristiana sia una grande opportunità di vita per tanti. La fede cristiana non è una cultura. Fa cultura, ma non lo è. E’ il Cielo. E’ la voce di Dio. Che anche i giapponesi possono vedere e sentire. 

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