30/10/2025, 13.58
COREA DEL NORD
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Quando i lavoratori di Pyongyang alzano la testa

di Andrea Ferrario

I tagli nelle commesse dalla Cina e il crollo degli stipendi stanno facendo esplodere in Corea del Nord il lavoro informale. Ma anche tra gli operai che Kim vende come mano d'opera a Pechino crescono le tensioni alimentate dalla trattenute sempre più alte sui loro stipendi per garantire entrate al governo di Pyongyang. Così il nuovo eldorado del regime oggi è diventata la Russia, dove è più forte l'isolamento linguistico e culturale.  

Milano (AsiaNews) - Quando si parla di lavoratori nordcoreani, il discorso oscilla di norma tra due estremi ugualmente distorcenti: da un lato l'indifferenza quasi completa, dall'altro una rappresentazione caricaturale che li riduce a ingranaggi privi di volontà. La realtà che trapela dalle informazioni disponibili è diversa, più stratificata e drammatica proprio perché attraversata da tensioni reali e forme di resistenza che sfidano l'immagine dell'automa passivo.

Il lavoro in patria

All'interno della Corea del Nord, il lavoro ufficiale ha smesso da tempo di garantire la sussistenza. Gli stipendi statali si aggirano intorno ai quattro o sei dollari al mese, mentre il prezzo del riso è raddoppiato dal 2020, arrivando a sfiorare i 6.000 won nordcoreani al chilo (pari a circa 30-40 centesimi di dollaro). Il salario è diventato una finzione amministrativa. La sopravvivenza dipende dal lavoro informale e dalle attività occasionali.

Negli ultimi due anni questa precarietà si è aggravata a causa del crollo delle commesse di subfornitura dalla Cina. L'automazione nelle fabbriche cinesi di ricamo, parrucche e ciglia finte, tradizionali voci dell’esportazione di Pyongyang, ha eliminato una delle principali fonti di reddito per i nuclei familiari nordcoreani. Al loro posto è esploso il lavoro giornaliero, impieghi precari nell’edilizia e nell’agricoltura stagionale, spesso pagati in natura più che in denaro. La retorica socialista dell'assegnazione statale del lavoro convive con una realtà fatta di espedienti quotidiani per procurarsi cibo e carburante.

Nel frattempo, il regime ha risposto alla crisi economica rafforzando il controllo ideologico sui luoghi di lavoro. Tutti i lavoratori devono partecipare a sessioni settimanali di studio delle direttive del partito. Le campagne di mobilitazione per grandi opere, formalmente volontarie, sono di fatto obbligatorie e chi non partecipa rischia l'esclusione dalla razione alimentare, quando disponibile. In diverse province, soprattutto nel Nord-est, il governo ha tentato di imporre ore di straordinario per colmare le carenze di produzione. A Hyesan l’ordine è stato annullato dopo proteste informali e cali di rendimento, segno di una tensione crescente tra obiettivi del regime e capacità di una popolazione stremata. Il lavoro in Corea del Nord non è più uno strumento di redistribuzione, se mai lo è stato. È diventato un dispositivo di controllo sociale che si scontra con una realtà materiale sempre più precaria, generando crepe nel sistema.

Il caso cinese

Questo quadro di pressioni convergenti spiega in parte quanto accade oltre confine. Per decenni, l'invio di lavoratori in Cina ha rappresentato una valvola di sfogo economica e politica per Pyongyang, ma negli ultimi due anni, il meccanismo si è irrigidito da entrambe le parti. Nell'ottobre 2024, circa 4.000 lavoratori nordcoreani sono stati rimpatriati dalla città cinese di Dandong in un solo mese e i flussi sono poi proseguiti a ritmo ridotto nei mesi successivi. Le autorità cinesi hanno preso di mira soprattutto le piccole fabbriche sotto i duecento addetti, attive nell'abbigliamento e nell'assemblaggio elettronico. Parallelamente, le deportazioni collettive per infrazioni amministrative minime si sono moltiplicate, in un contesto di rigidità disciplinare prossima alla schiavitù. Uscite non autorizzate o il possesso di oggetti da spedire a casa sono sufficienti per la deportazione.

Per i lavoratori rimasti, le condizioni si sono deteriorate rapidamente. I turni arrivano fino a tredici ore senza straordinari retribuiti e in alcune fabbriche, l'unico "bonus" consiste in razioni aggiuntive. Il nodo più grave riguarda però i salari. Le promesse iniziali parlano di 2.000 yuan al mese, ma i pagamenti effettivi oscillano tra 300 e 700 yuan. Il resto viene trattenuto dai funzionari nordcoreani che gestiscono i conti in cui confluiscono gli stipendi al netto delle "quote" in valuta destinate allo stato. Queste quote possono arrivare fino al 70% del reddito e, dal 10 marzo 2025, sono state raddoppiate per decreto da Pyongyang.

Proprio a metà marzo 2025, in un impianto di trasformazione del pesce a Dalian, è esploso il malcontento accumulato. I lavoratori nordcoreani avevano ricevuto una rara licenza di cinque giorni, probabilmente vista dai funzionari come una concessione sufficiente a stemperare le tensioni. Ma quando hanno chiesto di accedere ai loro risparmi accantonati, si sono visti opporre un rifiuto secco. La lite è degenerata rapidamente. L’intervento di cittadini locali ha evitato il peggio e i quadri hanno poi distribuito somme minime imponendo il silenzio. L'episodio non è isolato. Già nel gennaio 2024, nella città cinese di Jilin, operai nordcoreani esasperati da stipendi non pagati da lunghissimo tempo avevano aggredito un responsabile, che è morto in seguito alle ferite.

La Cina rappresenta oggi il paradosso di una zona di opportunità trasformata in gabbia. Le autorità cinesi collaborano attivamente al controllo disciplinare dei lavoratori nordcoreani e allo stesso tempo le fabbriche cinesi automatizzano i processi produttivi, eliminando proprio quelle commesse di subfornitura che per anni hanno costituito la ragion d'essere dell'intero sistema. I lavoratori si trovano così stritolati tra due meccanismi di potere che convergono nel renderli superflui, con prospettive sempre più cupe.

La Russia come nuovo fronte

Mentre la Cina restringe i canali di impiego e intensifica i rimpatri, la Russia si apre, offrendo nuovi sbocchi alla manodopera nordcoreana. Tra il 2024 e i primi mesi del 2025, migliaia di lavoratori sono stati trasferiti nella Federazione russa per operare principalmente nell’edilizia e nel taglio del legname siberiano. Il loro numero resta incerto, da poche a diverse decine di migliaia a seconda delle fonti. Quanto alle retribuzioni, analisi sudcoreane parlano di compensi lordi medi intorno agli 800 dollari mensili, anche se solo una minima parte di questa somma arriva effettivamente ai lavoratori. Il meccanismo di elusione delle sanzioni Onu che vietano questa “esportazione” di lavoratori nordcoreani è collaudato, e consiste in visti studenteschi o coperture formali che mascherano contratti di lavoro effettivi. Alcune inchieste giornalistiche parlano di collocazioni anche in grandi aziende della distribuzione e della logistica russa, segno che il perimetro occupazionale si sta allargando. Pyongyang ha inoltre avviato trattative per l'invio di personale sanitario, nell'ambito di un partenariato più ampio che include la costruzione di un ospedale e programmi di formazione medica.

In Russia, come già in Cina, il governo nordcoreano ha imposto un forte aumento delle quote in valuta che i lavoratori devono versare mensilmente allo stato. A Sakhalin, per esempio, l’importo richiesto a ogni addetto è stato raddoppiato, passando da 62.000 a circa 124.000 rubli. Poiché le aziende russe versano la paga complessiva direttamente ai rappresentanti di Pyongyang, il raddoppio della quota si traduce per i lavoratori in una drastica riduzione del denaro effettivamente disponibile. Per mantenere il livello delle rimesse inviate a casa, molti sono costretti a prolungare l’orario di lavoro o ad accettare incarichi supplementari, con risparmi che si fanno nulli e condizioni materiali sempre più dure. Il modello di sfruttamento riproduce quello già sperimentato in Cina, ma in un ambiente più isolato e meno soggetto a osservazione internazionale, grazie alla copertura politica offerta dalla partnership strategica tra Mosca e Pyongyang. La Russia rappresenta il nuovo eldorado del regime nordcoreano. Per i lavoratori significa semplicemente la riproduzione del sistema di sfruttamento in un ambiente diverso, con gli stessi vincoli e le stesse pressioni, aggravati dalla maggiore distanza geografica e dall'isolamento linguistico e culturale.

Il sistema del lavoro nordcoreano si regge su un equilibrio sempre più precario tra estrazione di valuta, controllo ideologico e capacità di resistenza dei lavoratori. I conflitti di Dalian e Jilin dimostrano che anche in un regime totalitario esistono spazi di contestazione. In quei gesti di resistenza si intravede una volontà di autonomia che infrange l’immagine dei lavoratori come automi passivi.

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