30/10/2025, 13.48
ISRAELE - GAZA - GOLFO
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Al Sabaileh: a Gaza ‘tentativo di peace-enforcing’, disarmo di Hamas nodo centrale

di Dario Salvi

Ad AsiaNews lo studioso giordano sottolinea che superato il passaggio “più facile” legato al ritorno “degli ostaggi in vita”, sono emersi i punti critici. Il movimento non vuole cedere le armi ed è in stallo la definizione di una forza internazionale chiamata a vigilare sulla tregua. Superare “logica di conflitti e tensioni regionali” per creare “futuro di pace” a livello “culturale, oltre che economico”.

Milano (AsiaNews) - Le tensioni dei giorni scorsi a Gaza con scontri a fuoco, cui sono seguiti pesanti attacchi dell’esercito israeliano sono “normali”, perché “abbiamo superato la fase più facile, quella del ritorno degli ostaggi in vita” e ora emerge con forza “il problema attuale: come arrivare alla fase 2, soprattutto nodo legato al disarmo di Hamas. È quanto sottolinea ad AsiaNews il docente e geopolitico Amer Al Sabaileh, esperto di questioni mediorientali, sicurezza internazionale e policy dei processi di pace in aree di crisi, collaboratore di diverse testate fra cui The Jordan Times, analizzando i recenti sviluppi nella Striscia.

In realtà il movimento, prosegue lo studioso, ha mostrato “poca intenzione di farlo, al contrario ha creato una situazione problematica in tema di sicurezza interna e sul ritorno dei cadaveri degli ostaggi deceduti”. Così facendo “ha sfruttato questo passaggio fra la prima e la seconda fase” del piano di pace del presidente Usa Donald Trump per “imporre la propria presenza come forza eminente nello scenario palestinese”. La “pressione” esercitata da Washington ha permesso il ritorno degli ostaggi vivi ma, avverte, “abbiamo un serio problema per la seconda parte, che non si risolverà mai politicamente sino a che Hamas non accetterà un disarmo di sua spontanea volontà”.

Il tema della cessione delle armi di Hamas, collegato alla recente ondata di violenza a Gaza col suo carico ulteriore di morti - oltre un centinaio secondo fonti della Striscia, molti dei quali civili e anche bambini - resta centrale per il futuro. Secondo un sondaggio diffuso del Palestinian Centre for Policy and Survey Research (Pcpsr), elaborato fra il 22 e il 25 ottobre intervistando circa 1200 palestinesi di cui 760 in Cisgiordania e 440 nella Striscia, la grande maggioranza (il 70% circa) è contrario al disarmo. Con una sostanziale, e significativa differenza: l’opposizione è più forte nei Territori occupati dove raggiunge l’80%, mentre nella Striscia - dove la popolazione è sottoposta al controllo di Hamas - i contrari sono poco più della maggioranza (il 55%). Vi è inoltre da segnalare la decisione del capo dell’Autorità palestinese Abu Mazen di delineare l’iter di successione in caso di carica vacante, nominando “guida temporanea” l’attuale vice-presidente Hussein al-Sheikh.

Tornando alla situazione di fragile tregua nella Striscia e all’attivismo diplomatico di Stati Uniti e Paesi del Golfo delle ultime settimane, lo studioso giordano sottolinea “la pressione esercitata dal Qatar, soprattutto dopo l’attacco [israeliano], che ha fatto muovere Hamas in maniera diversa”. “La questione degli ostaggi in vita - prosegue Amer Al Sabaileh - era la più facile, ora l’aspetto più problematico è di convincere [i leader] a disarmarsi o lasciare Gaza. Ciò non succederà facilmente, quindi gli israeliani resteranno sul terreno operando [come avvenuto nei giorni scorsi, ndr] a seconda delle loro esigenze di sicurezza, sulla falsariga di quanto avviene in Libano dove si arrogano il diritto di compiere operazioni, attacchi, eliminazioni mirate”. 

Al disarmo di Hamas si accompagna anche la questione della forza internazionale chiamata a pattugliare la Striscia, la cui composizione e i tempi di definizione restano vaghi, oltre che elemento di tensione con Israele che ha posto il veto sul alcune nazioni, a partire dalla Turchia. Al riguardo, l’esperto spiega che “non siamo ancora in una fase di peace-keeping, quanto piuttosto ad un tentativo di ‘peace-enforcing’ ma non è escluso, come ha già detto, che l’inquilino della Casa Bianca autorizzi il premier israeliano Benjamin Netanyahu a finire il lavoro”.

“Siamo in una fase in cui abbiamo di fronte due scenari: Israele che interviene militarmente quando sente l’esigenza e la nascita di milizie palestinesi che combattono esse stesse contro Hamas. Un momento critico - avverte - e la mancanza di una ‘peace-enforcing’ creerà sempre più confusione interna”. Per quanto riguarda i Paesi che potrebbero far parte di questa “forza”, osserva Al Sabaileh, “credo che tutte le nazioni che hanno un patto di pace con Israele potrebbero farne parte” sebbene lo Stato ebraico non voglia “né la Turchia né Qatar” per una “mancanza di fiducia”. In questo senso, afferma, è prematuro pensare a una forza sul modello di Unifil in Libano, perché oggi l’obiettivo primario è garantire non riesploda il conflitto tollerando scontri a bassa intensità o l’attività di milizie che si combattono fra loro.

Resta il nodo riguardante un maggiore coinvolgimento di altri Paesi in un quadro di crisi, anche questo uno degli obiettivi di Trump, il quale guarda a nazioni “a maggioranza islamica, anche non arabe, come l’Indonesia che è il più grande a maggioranza sunnita o l’Azerbaijan per gli sciiti”. Un coinvolgimento che passa anche, ma non necessariamente, dagli Accordi di Abramo, in cui permane il ruolo chiave degli Stati del Golfo. “Una normalizzazione - sottolinea - potrebbe essere importante anche in una prospettiva di ricostruzione, di futuri rapporti commerciali, economici, di cooperazione a livello geografico”. Un esempio è l’Imec, il corridoio India-Europa (India-Middle East-Europe Economic Corridor), che “passa proprio dai Paesi del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita che, a differenza degli Emirati Arabi Uniti (Eau) non ha ancora un processo di pace con Israele”. Per questo, avverte, “potrebbe essere sempre importante non solo per mettere fine alla guerra e uscire da questa logica di conflitti e tensioni regionali, ma anche per creare un futuro di pace su un livello culturale, oltre che economico”.

Per realizzare questo obiettivo, o creare i presupposti perché ciò avvenga, lo studioso sostiene la posizione più volte espressa di recente dal card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, secondo il quale sono necessari nuovi leader su entrambi i fronti. “Stiamo per entrare in una nuova fase - racconta - in cui è necessaria una nuova retorica, una nuova narrativa, nuove visioni e soprattutto nuove mentalità e nuovi leader. Tanti, sinora, hanno sprecato solo tempo e non sono riusciti a imporre una pace - avverte - che non può essere solo un concetto teorico, ma va impiantata con la fatica, con il lavoro, sforzandosi. A tanti è mancato il coraggio e ora appartengono a una fase che si è chiusa”; al loro posto devono “emergere facce nuove, altrimenti - conclude - non potremo compiere passi verso lo sviluppo di rapporti regionali o aprire una nuova fase che metta fine ai concetti di milizie, armi, guerra”.

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