12/11/2009, 00.00
ASIA
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Come Madre Teresa, non siamo assistenti sociali, ma collaboratori dell’amore di Dio

di Fratel Yesudas, MC*
Le opere di carità della Chiesa devono ispirarsi alla Deus Caritas est di Benedetto XVI. La compassione verso l’altro è immagine della compassione di Dio per l’uomo. Madre Teresa affermava: “Non mi è chiesto di avere successo, ma di avere fede”.

Taipei (AsiaNews) - Il Pontificio consiglio Cor Unum ha tenuto a Taipei nel settembre scorso un corso di  esercizi spirituali. L'iniziativa era rivolta a religiosi e laici dell’Asia coinvolti nelle opere di carità della Chiesa e ha visto la partecipazione di 450 persone da 29 Paesi. Fratel Yesudas, già superiore dei Missionari della Carità, l'ordine religioso maschile fondato da Madre Teresa di Calcutta, ha guidato i cinque giorni di ritiro dal titolo “…l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Egli stesso ha detto ad AsiaNews di aver usato come fonte di ispirazione l’enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas est; le Sacre Scritture e la testimonianza di Madre Teresa. Pubblichiamo qui uno dei suoi interventi.

 In una sua recente omelia il nostro Santo Padre ha affermato: “Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente”. Egli ha chiesto che “la nostra vita parli di Dio, che la nostra vita sia …. annuncio di Dio, porta nella quale il Dio lontano diventa il Dio vicino, e realmente dono di noi stessi a Dio”. (Aosta, 24 luglio 2009).

 Nel 1977, rivolgendosi ad un gruppo di collaboratori e fratelli a Los Angeles, Madre Teresa ha detto: “Dobbiamo una profonda gratitudine alla Chiesa perché ci permette di vivere ed essere la presenza di Gesù tra i più poveri dei poveri ed essere l’amore e la compassione di Dio per loro. Perchè Dio ama ancora il mondo, continua ad amare il mondo. Egli ama il mondo a tal punto da aver dato il suo unico Figlio. E oggi continua ad amare il mondo continuando a dare Gesù attraverso te e me. Gesù è venuto nel mondo perché Dio ama il mondo, suo padre ama il mondo. Egli era il dono di Dio al mondo. Questo vale anche per noi: ognuno di noi, secondo la sua strada, deve essere quell'amore, quella compassione del Padre per il mondo”. “Questo è il motivo per cui la vocazione dei nostri fratelli, delle nostre sorelle, dei nostri collaboratori e di ognuno di noi è così bella”.

 È bene domandarsi che tipo di immagine abbiamo di Dio e di Gesù perché essa influisce sul nostro modo di percepire la vita cristiana. Essa influirà su tutte le nostre attività caritatevoli. Possiamo compiere un breve viaggio attraverso il Vangelo ed aprire i nostri cuori a Dio per essere trasformati. La missione di Gesù è quella di rivelare il Padre all’umanità e al mondo intero. Egli era pieno di Spirito Santo. Noi vediamo Gesù come una persona unita con lo Spirito di Dio. La sua autorità proveniva da questa unità con il Padre. Quando leggiamo in Vangelo entriamo in rapporto con questa unità che i suoi discepoli percepivano come una presenza che avvolgeva Gesù in modo palpabile e contagioso. Era questa presenza che dava liberazione e pace. La relazione tra Gesù e suo Padre si esprimeva in una semplicità incredibile. Gesù non ha mai usato striscioni per dire alla gente chi era e cosa stava facendo, allo stesso modo facciamo noi nelle nostre opere di carità. Invece degli striscioni egli era pieno di Spirito. In Luca noi leggiamo: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

 Chi incontra Gesù vive l’esperienza della sua presenza spirituale. È un’esperienza del sacro. Essere in sua presenza è un’esperienza eccezionale.

 Un giornalista che aveva visto Madre Teresa camminare fuori dalla Casa madre di Calcutta ha scritto: “ In lei c’è Qualcuno che le indica dove mettere ogni passo e quali parole dire”.

 Per tutti noi implicati in opere di carità, il conoscere ed essere nello Spirito di Dio, in Gesù e attraverso di lui, ha un implicazione significativa per la nostra vita oggi. Come dice il Santo Padre “Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente”. Egli non è un Dio che si è allontanato da questo mondo, ma è presente attorno a noi. “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”(At 17, 28)

 Nel Vangelo non vediamo Gesù solo come una persona piena di Spirito, ma anche piena di misericordia. Questa è una parola importante nel Vangelo. Gli autori del Vangelo parlano di Gesù come di una persona che ha e si muove con misericordia (Mt 9,36; Mc 6, 34; Lc 7, 13). Il termine misericordia è una sintesi del suo insegnamento su Dio e del modo di vivere in Dio. Per Gesù la misericordia è la caratteristica ed il cuore della natura di Dio. Ed io credo che essa sia il centro della natura e la qualità morale di una vita centrata in Dio. Pieno di Spirito Gesù ci dice: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”.

 Il messaggio e la vita di Gesù ci indica una cammino orientato dall’imitazione di Dio. L’immagine di Dio e lo stile di vita - ciò che Dio ama e come dobbiamo vivere - ci unisce insieme. Le parabole di Gesù del Figliol prodigo (Lc 15, 11-32) e del Buon samaritano (Lc 10, 30-37) ci invitano a guardare il carattere di Dio ed a riflettere: come rispondiamo a ciò che accade attorno a noi? Nella parabola del Figliol prodigo la figura centrale è il padre “paziente, amorevole e misericordioso”. Tutti noi conosciamo bene la storia, ma è bene rifletterci sopra assieme. Ci sono tre scene diverse nella parabola. La prima è il viaggio del figlio più giovane in un lontano paese straniero in cui sperpera tutti i suoi averi. Quando ha speso tutto, si trova ad avere bisogno. Allora  si mette al servizio di un abitante di quella regione che lo manda nei campi a curare i maiali. La prima scena è la descrizione della misera del giovane figlio – che potrebbe essere chiunque tra noi – caduto in disgrazia per essersi allontanato dall’amore duraturo.

 La seconda scena è il ritorno del figlio dal lontano paese straniero. Il Figliol prodigo “torna in sé” e intraprende il viaggio di ritorno. Egli fa mea culpa, prepara la sua confessione: “Ho peccato contro il Cielo e prima ancora contro di te”, ma il padre lo vede di lontano mentre è sulla via del ritorno ed ha compassione di lui. Corre verso suo figlio, lo abbraccia e lo bacia prima che egli possa pronunciare il suo mea culpa. Il comportamento del padre è una celebrazione gioiosa. Nella gioia il Padre sembra ignorare la confessione del figlio. Cosa pensiamo di un padre che si comporta in questo modo? Dio si comporta così?

 L’inizio della terza scena ci mostra la reazione del figlio maggiore fedele e ubbidiente. Non è contento, rifiuta di gioire. È preso da un senso di ingiustizia e rimane fuori dalla festa. Il padre allora va da lui ed ascolta le sue lamentele. La parabola finisce con le parole del padre che spiegano in modo semplice il motivo della celebrazione: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

 Il cuore della parabola è un invito a guardare con attenzione una caratteristica peculiare di Dio. Che è come un padre che si strugge per il ritorno di suo figlio da una terra straniera e lontana. Quando lo vede ricomparire è “mosso a compassione” e celebra con gioia il suo ritorno a casa. La sua compassione si estende anche al figlio ubbidiente: il padre esce dalla casa per invitarlo ad unirsi alle celebrazioni, lo chiama a cambiare la sua scarna visione della vita e a come essa dovrebbe essere. Lo sguardo di questo figlio devoto è tutto ripiegato sulla propria devozione, sulla correttezza e sui soldi, mentre l’attenzione del padre è rivolta alla vita. Concentriamoci su queste parole del padre: “Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita”. Il figlio maggiore dimentica due aspetti della vita: compassione e gioia. Noi possiamo essere come il figlio ubbidiente, tutti concentrati sui nostri progetti: opere, amministrazione, gestione, soldi per il nostro lavoro caritativo, e non sulla vita e ciò che di più nobile c’è in noi: compassione e gioia.

 La parabola ci invita a riflettere sull’animo di Dio e sul tipo di vita a cui siamo chiamati osservando con attenzione questa sua caratteristica. Dobbiamo essere compassionevoli come Dio è compassionevole. La centralità della compassione è sottolineata nella parabola del Buon samaritano. In questo famoso racconto, un sacerdote ed un levita si imbattono in un uomo picchiato da briganti e passano oltre, ma un samaritano si ferma e lo aiuta, fascia le sue ferite, lo porta in un locanda, si prende cura di lui, e quindi lascia dei soldi all’albergatore perché continui ad accudirlo. Alla fine della parabola Gesù chiede al dottor della legge che lo aveva interrogato: “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: ‘Chi ha avuto compassione di lui?’. Gesù gli disse: ‘Va’ e anche tu fa’ lo stesso’”.

 Gesù dice al dottore delle legge di imitare la compassione di Dio, e invita noi a trasformare la nostra vita. La compassione è una concezione della vita umana inserita nella comunità, e questa compassione è una qualità impressa da Dio nel cuore dell’uomo. Significa nutrire, curare, abbracciare e soprattutto avere compassione e donare la vita. Dio ci ama e si preoccupa per noi. Essere compassionevoli significa sentire come Dio sente e agire come Dio agisce: donandosi a noi e sostentandoci. Gesù ci invita a guardare colui che è la compassione per eccellenza e la compassione come caratteristica centrale di una vita che crede in Dio. Questa fedeltà è il centro del nostro lavoro caritativo nella Chiesa. Quando Madre Teresa è andata a New York per iniziare la sua missione di carità, uno dei giornalisti le ha chiesto: “Madre Teresa, pensa che il suo lavoro qui avrà successo come a Calcutta?”. La Madre rispose: “Non mi è chiesto di avere successo, ma di avere fede”. Se noi cerchiamo il successo, finiremo intrappolati nella nostra immagine, ma se restiamo fedeli saremo in contatto con il cuore pulsante di Dio, il cuore vivo degli altri e di noi stessi.

 Il Santo Padre nella sua prima enciclica scrive: “Quanti operano nelle Istituzioni caritative della Chiesa devono distinguersi per il fatto che non si limitano ad eseguire in modo abile la cosa conveniente al momento, ma si dedicano all'altro con le attenzioni suggerite dal cuore, in modo che questi sperimenti la loro ricchezza di umanità” (Deus Caritas est, 31a). Queste “intenzioni suggerite dal cuore” crescono a partire dalla nostra unione con Gesù. Noi stiamo continuando la missione di Gesù e perciò noi siamo tutti collaboratori di Cristo, qualunque sia il nostro ruolo ed il nostro servizio nella Chiesa. Per questo noi abbiamo bisogno di una più intensa vita di preghiera, abbiamo bisogno di un grande zelo.

 Madre Teresa spiegava tutto ciò in maniera semplice: “Un collaboratore è una persona che vive l’amore e la compassione di Dio oggi. Dio ama a tal punto il mondo, da aver dato il suo unico Figlio. E oggi Egli dà te al mondo. Egli dice: dammi il tuo cuore! Questo cuore deve far risplendere l’amore di Dio nel mondo, la speranza della gioia eterna, la fiamma ardente dell’amore di Dio nel mondo oggi. Quindi, il collaboratore non è un modo di dire… siete collaboratori di Cristo stesso che vi chiede di essere suoi in modo totale, ovunque vi trovate, qualunque lavoro state facendo, per far risplendere l’amore di Dio. C’è tanta oscurità nel mondo oggi e voi qui, come collaboratori, dovete essere questa luce. C’è così poca speranza, così tanta disperazione, così tanta angoscia. Un collaboratore deve essere la speranza della gioia eterna. C’è così tanto odio, ci sono così tanti omicidi e distruzione nel mondo: un collaboratore deve essere la fiamma ardente dell’amore e della compassione di Dio. Ecco il motivo per cui abbiamo bisogno di pregare”.

 Lo spirito di amore e compassione ci rende diversi dagli altri operatori sociali. Le attività caritative della Chiesa sono una contemplazione della presenza di Gesù che si rende presente in chi ha fame, è nudo, ammalato e senza tetto. Per questo Madre Teresa diceva che alle Missionarie della Carità: “Non siamo assistenti sociali. Siamo vere contemplative poste nel cuore del mondo che toccano il corpo di Cristo 24 ore su 24”.

 C’è un effetto della nostra opera di carità nella Chiesa. Più spendiamo il nostro tempo nel lavoro di carità, più i nostri cuori sono rinnovati. Un cuore rinnovato è un cuore premuroso che si muove a compassione. Quando sorge la compassione fiorisce la gratitudine. L’intera esistenza diventa un luogo di preghiera, un tabernacolo. Il tocco delle nostre mani diventa preghiera, qualunque cosa facciamo diventa gesto di devozione. In ogni momento amiamo in modo profondo, siamo premurosi e trabocchiamo di compassione. Coma Madre Teresa dobbiamo conoscere l’esperienza dell’umiltà. “Non è frutto del mio lavoro, ma è il Suo”. La nostra opera appartiene a Lui. Abbiamo un potere incredibile in tutti i nostri centri caritativi della Chiesa: la presenza del Signore, “un tabernacolo”. Questo è il motivo per cui Madre Teresa, ovunque apriva una nuova comunità delle Missionarie della Carità, era solita dire: “Ho aperto un nuovo tabernacolo”. O come diceva fratel Andrew, cofondatore dei Fratelli missionari della carità: “Un cuore premuroso è meglio di mille teste perché si muove verso la bellezza e la grazia”.

 *Fratel Yesudas è consultore dei Missionari della Carità

 

 

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