31/10/2025, 15.17
HONG KONG-CINA
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Diritti umani e libertà non pervenuti dal vertice Trump-Xi

Solo informazioni su contropartite commerciali nei resoconti del vertice di Busan. Mentre a Hong Kong slitta ancora l'inizio del processo a Lee Cheuk-yan e Chow Hang-tung (in carcere da più di 1500 giorni per le veglie in memoria di Tiananmen), a Macao chiude un'altra testata indipendente e Radio Free Asia si ferma del tutto soffocata dai tagli alla cooperazione Usa. C'è ancora spazio per le battaglie di libertà nell'era dei negoziati transazionali?

Milano (AsiaNews) - Gli analisti di questioni geopolitiche in tutto il mondo si confrontano in queste ore sugli esiti dell’attesissimo incontro tra Donald Trump e il presidente cinese Xi Jinping, il primo da sei anni a questa parte, tenutosi ieri a Busan a margine del vertice dell’Apec, l’organismo di cooperazione economica tra i Paesi che si affacciano sulle due sponde del Pacifico. Un’ora e quaranta minuti di colloquio senza dichiarazioni congiunte o accordi sottoscritti, che al di là delle solite dichiarazioni retoriche sulla collaborazione (Xi Jinping si è spinto persino a dire che lo slogan Make America Great Again assomiglia molto al suo mantra sul “ringiovanimento” della nazione cinese) non sembrano aver prodotto nulla più di una tregua nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. In sintesi: per un anno Washington sospende i dazi aggiuntivi del 10%, in cambio della revoca del blocco alle esportazioni di terre rare da parte di Pechino e della ripresa delle importazioni di soia made in Usa.  

Questioni commerciali a parte, nel voto “12 su una scala da 10” dato da Trump al vertice con Xi Jinping nulla è dato di sapere riguardo alle questioni relative al tema dei diritti umani in Cina. Il presidente degli Stati Uniti aveva promesso di sollevare durante il colloquio la questione di Jimmy Lai, l’imprenditore cattolico pro-democrazia in carcere da quasi cinque anni a Hong Kong. E proprio nelle ultime settimane Washington aveva duramente condannato l’ondata di arresti che nella Repubblica popolare il 10 ottobre ha colpito la Zion Church, una delle maggiori “chiese domestiche” cinesi, con il pastore Jin Mingri e gli altri leader che restano tuttora in carcere.

Si vedrà nelle prossime settimane se - al di là del silenzio nelle dichiarazioni - qualche risultato su queste vicende durante l’incontro Trump l’abbia ottenuto. Resta il fatto che nell’era dei dazi la questione dei diritti umani sembra del tutto scomparsa dal dibattito intorno ai vertici tra Cina e Stati Uniti.

Eppure la stretta nei confronti del dissenso si fa ogni giorno più dura. Nelle stesse ore in cui i riflettori del mondo erano puntati sul vertice tra Xi e Trump, 92 tra organizzazioni internazionali della società civile e singole personalità avevano lanciato un appello ai governi dei Paesi del G7 (Stati Uniti compresi, dunque) e degli Stati membri dell’Unione europea sulla sorte del sindacalista Lee Cheuk-yan e dell’avvocatessa Chow Hang-tung, in carcere da più di 1500 giorni a Hong Kong. Sono accusati di “istigazione alla sovversione del potere statale” ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nel 2020 per il ruolo ruolo di organizzatori (insieme al parlamentare locale Albert Ho, anche lui detenuto dal 2023) delle veglie che fino al 2019 a Hong Kong ogni anno il 4 giugno ricordavano il massacro di piazza Tiananmen. Il 3 novembre sarebbero dovuti finalmente andare alla sbarra, ma nei giorni scorsi è stato annunciato senza alcuna spiegazione un nuovo rinvio di altri due mesi dell’inizio del processo.

“Chow, stimata avvocata e prigioniera di coscienza riconosciuta da Amnesty International, e Lee, importante leader sindacale e attivista pro-democrazia - si legge nell’appello - sono stati ingiustamente imprigionati per oltre 1.500 giorni solo per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione, associazione e riunione pacifica. Chiediamo ai governi del G7 e dell’Unione Europea di monitorare da vicino il processo e di esercitare pressioni diplomatiche, sia bilaterali che multilaterali, sul governo di Hong Kong affinché rilasci immediatamente Chow Hang-tung e Lee Cheuk-yan e ritiri tutte le accuse penali a loro carico”.

C’è poi il capitolo sulla libertà di informazione: oggi Hong Kong Free Press - una delle ultime voci indipendenti rimaste nell’ex colonia britannica, dopo la repressione del 2020 che ha portato alla chiusura per strangolamento economico di numerose testate tra cui l’Apple Daily di Jimmy Lai – ha reso noto l’esito dei controlli “a campione” a cui è stata sottoposta per mesi dalla locale agenzia delle entrate che ha passato al setaccio sette anni di conti. Per aver pagato al fisco 3020 dollari di Hong Kong in meno rispetto al dovuto (meno di 340 euro pari allo 0,78% delle proprie entrate ndr), Hong Kong Free Press è stata costretta ad accettare di pagare una sanzione da 57.692 dollari di Hong Kong (6400 euro, quasi venti volte tanto ndr) per poter andare avanti nella propria attività. Nel frattempo anche a Macao – l’altra ex colonia portoghese, passata sotto la sovranità di Pechino a fine 1999 - All About Macau, un media indipendente locale, ha annunciato oggi la propria chiusura dopo che le autorità hanno negato ai suoi giornalisti l’accesso agli eventi ufficiali e hanno cancellato la registrazione della testata in base alla legge sulla stampa.

Colpisce che in un panorama di questo genere, l’amministrazione Trump sembri ormai guardare con indifferenza alla fine di Radio Free Asia, il canale di informazione sostenuto dalla cooperazione americana che per quasi trent'anni è stato una voce importante nel far uscire dalla Cina e da altri regimi autoritari della regione le notizie sul dissenso e le violazioni dei diritti umani. Dopo aver ridotto fortemente le proprie attività a marzo in seguito ai tagli dei fondi della cooperazione Usa decisi dalla Casa Bianca, proprio in concomitanza con il vertice tra Trump e Xi, il 29 ottobre Radio Free Asia ha sospeso del tutto l’aggiornamento del proprio sito, spiegando che ormai “questa voce è a rischio”.

Nell’era della politica fatta di vertici “incredibili”, all’ombra delle intese commerciali frutto di negoziati transazionali, c’è ancora spazio per le battaglie per la libertà in Cina? È la vera domanda che il vertice di Busan lascia in eredità.

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