08/09/2016, 08.58
ISRAELE - PALESTINA
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Gerusalemme, il palestinese ucciso dalla polizia israeliana non era un assalitore

Il 27enne Mustafa Nimr è morto per colpi di arma da fuoco. Gli agenti temevano un attacco a bordo di una vettura. La polizia indaga sulla persona alla guida. Testimoni riferiscono che l’auto non costituiva una minaccia per la sicurezza e procedeva entro i limiti di velocità. 

Gerusalemme (AsiaNews/Agenzie) - Il giovane palestinese ucciso dalle forze di sicurezza non stava effettuando un attacco - a bordo di una vettura - contro un gruppo di ufficiali di polizia, come dichiarato in un primo momento. Il 5 settembre scorso un gruppo di agenti di pattuglia nei pressi del campo profughi di Shuafat, nella zona di Gerusalemme est sotto il controllo israeliano, avevano aperto il fuoco contro un’auto nel timore di un attentato.                

Una delle persone a bordo della vettura, il 27enne Mustafa Nimr, è morta dopo essere stata colpita dai proiettili. Non si sono registrate vittime né feriti fra gli agenti. 

Luba Samri, portavoce della polizia, riferisce dell’apertura di un fascicolo di inchiesta a carico del 20enne Ali Nimr, cugino della vittima e alla guida dell’auto al momento dell’incidente. Egli è accusato di omicidio, omicidio colposo, guida senza patente, guida sotto l’influenza di alcolici e comportamento irresponsabile. Un modo, secondo alcuni, per scagionare gli agenti che hanno sparato. 

Al contempo, il Dipartimento responsabile delle forze di polizia del ministero israeliano della Giustizia ha aperto un secondo fascicolo per accertare eventuali responsabilità dei poliziotti. 

Alcune immagini diffuse dall’emittente israeliana Channel 10 mostrano che gli agenti avrebbero continuato a sparare anche dopo che la vettura si era fermata. In quel momento il giovane Mustafa Nimr era già a terra, ferito o forse deceduto. 

Un testimone, dietro anonimato, racconta che i due giovani stavano rientrando nel campo profughi dopo aver acquistato le pizze per la cena. Il giornale Hareetz aggiunge che una seconda vettura stava seguendo l’auto dei due cugini; a bordo vi erano la ragazza di Mustafa, di origine ebraica, e il fratello del giovane. 

Nato e cresciuto nel sobborgo di Shuafat, il 27enne si era trasferito da qualche tempo a Tel Aviv e conviveva con la ragazza. 

Secondo altre fonti la vettura non avrebbe messo in pericolo la vita dei poliziotti e procedeva rispettando i limiti di velocità. Gli agenti della polizia di frontiera che hanno aperto il fuoco si trovavano all’interno del campo profughi nel contesto di una operazione di pattugliamento. Per le forze di sicurezza israeliane è prassi comune compiere questi raid alla ricerca di armi o sospetti. 

Già in passato vi erano stati casi di morti e uccisioni di giovani palestinesi inermi e innocenti per mano della polizia israeliana. A giugno alcuni soldati dell’esercito hanno ucciso un ragazzo dopo aver aperto il fuoco contro un gruppo di giovani, di ritorno da una nuotata, scambiandoli per manifestanti che lanciavano pietre. 

La vicenda aveva sollevato numerose polemiche e alimentato i dubbi sui mezzi usati dall’esercito e della polizia con la stella di David. In più di una occasione sono emerse accuse di “uso eccessivo della violenza” per uccisioni e sparatorie a carico di giovani palestinesi inermi e che non costituivano alcuna minaccia. 

Dall’ottobre scorso, dopo una serie di provocazioni di ebrei ultra-ortodossi che sono andati a pregare sulla Spianata delle moschee, si sono moltiplicati incidenti e scontri in Israele e nei territori palestinesi, nel contesto della cosiddetta “intifada dei coltelli”. Finora sono stati uccisi almeno 236 palestinesi, 32 israeliani, due americani, un sudanese e un eritreo.

La maggior parte dei palestinesi è stata uccisa mentre tentava di accoltellare o colpire con armi o con l’auto passanti o soldati. Altri sono stati uccisi nel corso di manifestazioni o scontri con i militari.

A fronte di questa escalation di violenze, culminata nell’attacco a Tel Aviv dell’8 giugno scorso, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha deciso di rafforzare la politica delle demolizioni delle case di assalitori palestinesi. Una misura che, secondo le voci critiche, rappresenta una “punizione collettiva” la quale finisce per esasperare la tensione. 

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