26/04/2013, 00.00
BANGLADESH
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I morti del Rana Plaza erano ricattati dai datori di lavoro

di Nozrul Islam
Le autorità avevano dichiarato pericolante l’edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche tessili, un centro commerciale e una banca: il crollo ha causato 304 morti, 2mila feriti e 372 dispersi. Nel palazzo venivano prodotti indumenti di grandi catene, come l’inglese Primark.

Dhaka (AsiaNews) - Un palazzo dichiarato inagibile e migliaia di uomini e donne costretti dai loro datori ad andare comunque a lavorare "altrimenti non vi paghiamo": inizia così il dramma del Rana Plaza, edificio di otto piani a Savar, 30 chilometri da Dhaka (Bangladesh), collassato su se stesso due giorni fa, il 24 aprile. Finora i soccorritori hanno estratto dalle macerie 2.348 persone: 304 sono morte e 2044 ferite, ma vive. Solo oggi 74 persone sono state tirate fuori, ma vi sono ancora 372 dispersi. Tra questi anche due ragazze che avevano studiato alla Novara Technical School, la scuola tecnica fondata a Dinajpur dai missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime).

Il Rana Plaza ospitava cinque fabbriche tessili - fornitori per grandi catene di abbigliamento come l'inglese Primark -, un centro commerciale e una filiale bancaria della Bangladesh Rural Advancement Committee (Brac), una delle ong più grandi al mondo, attiva in 69mila villaggi del Paese con progetti di sviluppo agricolo, microcredito, scuole, ospedali e difesa dei diritti umani. La compagnia italiana Benetton, accusata in un primo momento di far produrre lì i propri vestiti, ha negato il proprio coinvolgimento con un comunicato stampa ufficiale.

Il 23 aprile, un giorno prima del crollo, alcuni ispettori avevano dichiarato il palazzo inagibile e pericolante, con profonde crepe ben visibili in tutti i muri. La struttura infatti è stata costruita in maniera illegale da un giovane imprenditore su uno stagno prosciugato in modo artificiale. Proprio la Brac è l'unica società a non aver registrato vittime: sapendo dell'inagibilità ha avvisato dipendenti e clienti di non andare a lavoro, e il 24 aprile è rimasta chiusa. Tutti gli altri proprietari hanno invece costretto il proprio personale, per lo più ragazzi e ragazze, minacciando: "Se non venite non vi pago gli arretrati"; "Se manchi un giorno te ne tolgo tre dalla paga".

Oggi, mentre esercito e polizia continuano a scavare tra le macerie e a far calare nelle voragini acqua e cibo per chi è ancora intrappolato, centinaia di persone impiegate nel settore hanno bloccato le strade principali, per chiedere maggiore sicurezza sul posto di lavoro. È una storia già vista, che si ripete senza - per il momento - alcun accenno a cambiare. Come nel caso della Tazreen Fashion, fabbrica distrutta da un incendio il 16 novembre 2012: nove piani, una sola uscita d'emergenza (sbarrata) che ha impedito la fuga dei lavoratori. 

 

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