06/06/2006, 00.00
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Il Bhutan festeggia l'anniversario di re Jigme, protestano 110 mila profughi

di Prakash Dubey

Il re riceve plausi ed elogi in occasione del 32mo anno di regno. Gli abitanti del Bhutan ringraziano il sovrano per le aperture democratiche e la modernizzazione del Paese, ma si dimenticano che per 110 mila buthanesi di origine nepalese il regno di re Jigme li ha costretti allo status di rifugiati.

Thimphu (AsiaNews) – Il 2 giugno scorso il sovrano del Bhutan, re Jigme Singye Wangchuck, ha festeggiato il 32mo anniversario del suo regno. Il re è stato molto applaudito, in modo particolare per aver deciso di portare il Paese verso la democrazia. Ma ci sono 110mila profughi che contestano.

Re Jigme, spiega Aum Dorjee, un operatore sanitario, è famoso per il suo motto: "è più importante il prodotto interno di felicità rispetto al prodotto interno lordo". Aum spiega che il sovrano ha fatto si che il Paese "riuscisse a superare la fase medioevale e a muoversi verso la modernizzazione. I servizi sono migliorati, il re ha fatto costruire le strade. Il tasso di a alfabetizzazione è cresciuto del 60%, ogni anno si siedono sui banchi di scuola 135 mila studenti e l'occupazione aumenta in modo costante".

Chi ha tratto vantaggio dell'opera del re però sono solo i cittadini di etnia tibeto-bhutanese di religione buddista. Per oltre 110 mila bhutanesi quello di re Jigme è al contrario un regime dispotico che li ha costretti a rifugiarsi nei campi profughi al confine tra Nepal ed India. "La loro unica colpa è di essere di etnia nepalese e di non aderire al buddismo tibetano", spiega Krishna Bahadur Chetri, una profuga del Bhutan che ora lavora come commerciante di frutta in Nepal. "Negli anni '80 avevano chiesto di avere gli stessi diritti dell'etnia tibeto-bhutanese, perchè come loro partecipavano allo sviluppo del Paese. Vivevano nel Bhutan da oltre 100 anni, da quando i loro antenati si sono trasferiti per fare lavori di agricoltura. La loro richiesta però è stata la loro rovina: il re li ha cacciati con la forza nel 1990. L'India non li ha accolti, e li ha mandati in Nepal, la terra dei loro avi".

I profughi sono sopravvissuti solo grazie agli aiuti internazionali. "La loro condizione è però triste e patetica", spiega padre  Varkey, sacerdote cattolico che opera per il Jesuits Refugee Service (Jrs), organizzazione gesuita al servizio dei profughi di tutto il mondo. "Gli operatori internazionali – continua - arrivano ogni anno e trovano adulto o addirittura genitore chi all'inizio era un bambino. C'è molta sofferenza, preghiamo affiche il Bhutan, il Nepal e l'India si assumano le loro responsabilità e permettano a queste persone una vita dignitosa".

Shivendra Poudel, uno dei profughi, si dice pessimista riguardo a un ritorno in Bhutan, perlomeno fino a quando non cambierà la scena politica. "Per questo noi il 2 giugno protestiamo – afferma – consideriamo il re un despota". Poudel spiega ad AsiaNews che il 2 giugno oltre 6 mila profughi passano il ponte di Mechi per raggiungere una zona extraterritoriale fra Nepal e India: li organizzano un sit-in ed intonano cori contro il re del Bhutan. "Non siamo contro la monarchia – continua Poudel -  anche noi vorremmo festeggiare il 2 giugno, ma come possiamo fare? Ci ha cacciato, siamo senza una patria. Non possiamo fare altro che protestare per il nostro stato. Inoltre molti di noi hanno perso ogni speranza. Il desiderio di giustizia potrebbe avere dei risvolti violenti, in modo particolare da parte dei giovani, e di questo l'unico responsabile sarebbe re Jigme, che in modo ironico aderisce ai principi buddisti di pace e non violenza".

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