25/01/2024, 11.56
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La Cina nel conflitto birmano: i rapporti con le milizie etniche dello Stato Shan

di Alessandra De Poli

Secondo il ricercatore Xian Yaolong, del Peace Research Institute di Francoforte, Pechino ha interesse a fermare i combattimenti tra l'esercito e le forze anti-golpe solo in alcune aree del Myanmar, per proteggere i commerci e la sicurezza dei propri cittadini. Per questo anche una violazione del cessate il fuoco firmato nei giorni scorsi non è necessariamente visto come un fallimento dalla Cina.

Milano (AsiaNews) - La Brotherhood Alliance, composta da tre milizie etniche del Myanmar che a fine ottobre hanno lanciato un’offensiva congiunta contro l’esercito birmano, ha dichiarato che, se non fosse per il cessate il fuoco siglato con i militari grazie all'intermediazione cinese, tutte le principali città dello Stato Shan settentrionale sarebbero già state riconquistate. Una dichiarazione credibile, considerato che l'esercito pare stia perdendo il sostegno dei propri soldati e dei monaci buddhisti che avevano finora appoggiato il golpe.

Le milizie etniche sostengono che la giunta militare - che ha condotto un colpo di Stato contro il precedente governo di Aung San Suu Kyi il primo febbraio 2021 - abbia violato la tregua meno di 24 ore dopo la sua firma, tornando a dare impeto al conflitto nelle aree settentrionali del Paese. 

Potrebbe sembrare un fallimento per Pechino dopo tre cicli di negoziati, ma non lo è. A sostenerlo è Xian Yaolong, ricercatore presso il Peace Research Institute di Francoforte: “La Cina - commenta ad AsiaNews - non è interessata a risolvere l’intero conflitto, ma a mettere fine ai combattimenti solo in alcune aree”. Tra queste c’è la regione del Kokang alla frontiera con la Repubblica popolare cinese, che dalla dissoluzione del Partito comunista birmano nel 1989 è rimasta sotto il controllo dell’Esercito dell’Alleanza Nazionale Democratica del Myanmar (MNDAA), la principale organizzazione etnica armata che compone la Three Brotherhood Alliance. 

Quello che preoccupa la Cina, che rifornisce di armi la giunta al potere, è “il commercio transfrontaliero, la protezione dei propri investimenti e l’incolumità dei propri cittadini, sia in Myanmar che sul proprio territorio”, prosegue l’esperto. “Per Pechino è inaccettabile che il conflitto sconfini nelle proprie terre e anche se molti progetti cinesi hanno subito una battuta d’arresto dopo il golpe, alcuni sono in realtà ancora attivi, come nel caso del porto in acque profonde di Kyaukpyu, da cui partono anche una serie di oleodotti e gasdotti che arrivano fino a Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan. La Cina vuole che i combattimenti restino limitati e lontani da questi progetti, in modo da poter continuare gli affari”. 

Per questo la violazione del cessate il fuoco da parte delle truppe dell’esercito non preoccupa Pechino, che al contrario ha ottenuto ciò che voleva: uno stop dei combattimenti nelle aree di proprio interesse. “La ripresa degli scontri tra l’esercito e le altre milizie della Brotherhood Alliance - l’Esercito di Liberazione Nazionale Ta’ang (TNLA) e l’Esercito Arakan (AA) - non interessa a Pechino, perché le loro aree di scontro sono lontane da quelle di confine. Al contrario l’MNDAA è favorevole a una cessazione dei combattimenti perché come obiettivo politico sta cercando di ricostruire una propria amministrazione nel Kokang”.

Durante l’offensiva congiunta - chiamata Operazione 1027 - le milizie etniche hanno riconquistato non solo la regione di Kokang, ma anche i valichi di frontiera con la Cina. Dopo aver preso il controllo della città di Laukkai, la Brotherhood Alliance era pronta a prendere anche Lashio, una delle città principali, e soprattutto Muse, attraverso cui passano i commerci con la Cina. “Se non avessimo avuto pazienza o non avessimo rispettato l'accordo, avremmo già conquistato altre città che sono tra i nostri obiettivi”, hanno comunicato le milizie etniche, aggiungendo che la firma del cessate il fuoco è stata “ineludibile”, un punto su cui non hanno dato ulteriori spiegazioni.

“Pechino può trattare con qualunque attore del conflitto: non le importa chi sia al potere in Myanmar finché viene garantito un certo grado di stabilità”, ha continuato Xian Yaolong. “Per cui a Pechino non importa che la regione di Kokang sia governata dall’esercito birmano o dai gruppi della resistenza”, ha commentato ancora il ricercatore.

Oltre all’esercito e alle organizzazioni etniche armate (EAO), nel conflitto birmano sono coinvolti anche gruppi di milizie che combattono con l’esercito; le Border Guard Forces della regione di Kokang, anch’esse dalla parte dei militari ma con un grado maggiore di autonomia (forniscono protezione alla popolazione locale, ma anche servizi sanitari e d’istruzione); e infine, dopo lo scoppio della guerra sono sorte le Forze di difesa del popolo (PDF), che fanno parte della resistenza ma fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio.

“Solo alcuni di questi gruppi hanno relazioni con la Cina, che vuole comunque mantenere la questione di basso profilo, per essere fedele al proprio principio di non interferenza”, ha specificato Xian Yaolong. “Lo United Wa State Army, per esempio - un’altra milizia etnica - è uno Stato all’interno dello Stato perché gestisce un proprio territorio nello Shan e con la Cina condivide legami storici ed etnici e con cui al giorno d’oggi intrattiene importanti relazioni economiche: la Cina compra infatti molti beni provenienti dalla regione Wa. Ma Pechino non sostiene direttamente il gruppo inviando armi e invia sempre funzionari di livello molto basso a parlare con i capi dell’organizzazione”, ha proseguito lo studioso. “Sicuramente, però, i Wa approvano anche la firma del cessate il fuoco”. E infatti lo United Wa State Party, l’ala politica della milizia, ha portato sotto la propria amministrazione Hopang, una delle città conquistate all’inizio del mese alla Brotherhood Alliance. Sebbene lo USWA abbia negato il coinvolgimento nell’Operazione 1027, si pensa che abbia svolto un ruolo importante nella battaglia contro il regime.

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