La chiamata universale alle armi della Russia
Entro il 31 dicembre altri 135mila giovani russi saranno chiamatai alla leva militare con modalità sempre più stringenti per evitare scappatoie. Dove lo scopo non è principalmente l’ampliamento dei reparti dell’esercito, ma la ridefinizione della stessa vita comune della società, facendo sentire l’intera popolazione al fronte, anche se poi si mandano principalmente i caucasici e gli asiatici a farsi massacrare.
Dal 1° ottobre è iniziata in Russia la nuova chiamata alla leva militare, che secondo i canoni abituali si estende fino al 31 dicembre per radunare i giovani coscritti, ma quest’anno l’appello assume toni e modalità particolarmente intensi e universali. A cominciare da Mosca e a catena nelle altre regioni verranno inviati soltanto avvisi elettronici, al posto della classica cartolina che molti cercavano di evitare nascondendosi da qualche parte, fosse pure nei boschi sugli Urali o nella tajga siberiana, mentre ora non ci sarà più alcuna via di scampo. Verranno chiamate 135mila persone tra i 18 e i 30 anni, più dei 132mila dell’anno precedente, quando molti erano riusciti a far perdere le proprie tracce.
Oltre alla coscrizione obbligatoria, molti giovani sono stati inviati direttamente al fronte in Ucraina, attingendo al movimento della Junarmija, l’esercito giovanile da molti ridefinito la Putinjugend, da cui sono stati prelevati per la guerra 11mila ragazzi. Inoltre è stata approvata dalla Duma una legge che abolisce dal prossimo anno le limitazioni stagionali della leva, e introduce la “chiamata perpetua” in ogni giorno dell’anno, estendendo il controllo elettronico in funzione delle esigenze dell’esercito. Le regole diventano sempre più stringenti, e sono ben poche le scappatoie che possono permettere ai giovani di evitare il servizio militare. Come afferma il dirigente del progetto “Cittadino ed esercito” Sergej Krivenko, “i collaboratori della polizia dovranno insistere nelle ricerche dei richiamati utilizzando ogni strumento operativo a loro disposizione”.
Formalmente sono ancora in vigore le possibilità di esenzione dal servizio, per motivi di salute delle malattie di “categoria B”, a cui si appella circa un terzo dei potenziali coscritti. Molti cercano comunque di non farsi trovare cambiando il luogo di domicilio e non presentarsi in caserma, ma oggi questo tentativo di scomparire appare sempre più impraticabile, visto che i distretti militari ricevono le informazioni direttamente dagli archivi informatici e la polizia locale controlla costantemente le residenze dei cittadini. La ricerca dei fuggitivi dal servizio viene equiparata a quella dei banditi e delinquenti di ogni genere, usando i mezzi di controllo dei telefoni, delle videocamere della metropolitana e sulle strade, e nelle città è quasi impossibile evitare di essere scoperti. Anche la fuga all’estero è impedita dai controlli elettronici, e accedere al servizio civile alternativo, ancora permesso dalla legge, diventa sempre più problematico per una serie di condizioni sempre più restrittive.
Una delle possibilità di evitare la fase del servizio militare in caserma è proprio il contratto per andare direttamente al fronte in Ucraina, visto che le nuove leve dovrebbero rimanere riservate dai combattimenti, anche se si creano situazioni come l’invasione ucraina a Kursk, che ha fatto riversare i giovani nella regione contesa. In guerra si può guadagnare una libertà maggiore dopo un certo periodo, ammesso che si torni a casa integri e in posizione orizzontale. A coloro che arrivano al distretto viene subito proposto l’accordo per andare a combattere, promettendo soldi e impunità per il resto della vita, e molti accettano per disperazione o lasciandosi attirare dalle illusioni; i dati dei contrattisti sono riservati, ma si sa comunque che non sono pochi. Ci sono anche casi che sfuggono al segreto militare, come nella città di Čebarkul sugli Urali, dove il comandante della divisione ha firmato con l’inganno i contratti per tutti i coscritti, come poi è stato confermato dalla procura, ma i ragazzi sono comunque rimasti al fronte.
La Junarmija viene sempre più esaltata nella propaganda per il suo contributo alla guerra, come conferma il comandante in capo dell’organizzazione militare giovanile Vladislav Golovin, che informa come già 5 giovani rappresentanti del movimento abbiano ottenuto il titolo di Eroi di Russia, e oltre 700 siano stati insigniti della medaglia al valore per il coraggio dimostrato. In nove anni dalla fondazione, si sono iscritti alla Junarmija quasi due milioni di ragazzi. Come spiega il politologo Boris Pastukhov, un’associazione come quella dei “giovani soldati” è particolarmente importante nel clima di “chiamata universale alle armi”, per imporre in tutta la società “delle strutture in grado di controllare le coscienze delle persone”.
Il vero scopo di questa convocazione di massa, in effetti, non è principalmente il completamento o l’ampliamento dei reparti dell’esercito, ma la ridefinizione della stessa vita comune della società, imponendo categorie che creino una sensazione di guerra a tutti i livelli, facendo sentire l’intera popolazione al fronte, anche se poi si mandano principalmente i caucasici e gli asiatici a farsi massacrare. Ci deve essere sempre “qualcuno che ti controlla, una corporazione a cui devi rispondere e sottoporti, a cui devi appartenere”, afferma Pastukhov, ritrovando quella sensazione di “totale condivisione” che c’era ai tempi dell’Urss. Diventare membri del partito era allora “una preparazione dei quadri sociali per entrare nel luminoso futuro”, con la possibilità di fare pressioni su tutti coloro che non corrispondono alle direttive: la convocazione alle armi di oggi ha la funzione di proiettare la società russa verso la dimensione di un futuro “multipolare e di difesa delle tradizioni”, più che verso la conquista di altri villaggi dell’Ucraina, un risultato peraltro piuttosto deludente nell’ultimo mese, nonostante i continui bombardamenti.
Il “servizio militare” è la vera identità della cittadinanza nella Russia putiniana, che deve essere inculcata soprattutto nelle generazioni più giovani, rinverdendo le tradizioni dei pionieri e del Komsomol dei bei tempi sovietici, vivendo la guerra come contenuto principale della propria identità personale, sociale e religiosa. Che questo poi si traduca nuovamente in tragedia, invasione e distruzione come in Ucraina diventa in fondo secondario, anche se non mancano i progetti su tanti altri Paesi ex-sovietici da “riunificare” in Europa, nel Caucaso e in Asia centrale. Si tratta di una forma di educazione e formazione interiore, homo putinianus come nuova variante dell’homo sovieticus, un’ideologia e una visione del mondo universale e apocalittica, visto che la felicità futura non ha connotati reali, né quelli del socialismo rivoluzionario, né quelli del consumismo degradante dei “nuovi russi” che negli anni Novanta cercavano di spendere tutti i capitali accumulati nei luoghi ameni dell’Europa o dell’America.
Il discorso di Putin al Club Valdaj del 2 ottobre, in cui ha associato idealmente alla Russia anche la Svezia e la Finlandia, ha confermato la nuova rivelazione della visione del mondo basato sulla guerra permanente e interiore, unica risposta della Russia a tutte le possibili trattative di pace e di accordi internazionali. Questo rende la figura del presidente sempre più sacrale e superiore a tutte le prospettive politiche, economiche e militari: a Putin non serve vincere le battaglie sul campo, ma soltanto la grande battaglia dello spirito, imponendo ai sudditi e di riflesso al mondo intero una sensazione di totale sacrificio e disponibilità a rinunciare a sé stessi, per fondare un mondo nuovo. Questa è la via per la definitiva affermazione del culto della personalità del nuovo zar, che non si basa sull’ipnosi della retorica come era per Mussolini e Hitler, ma piuttosto sull’anonimato della comune identificazione nella massa di chi è pronto a morire per la patria, come nell’esempio di Stalin che vinceva la guerra mondiale dal chiuso del suo bunker moscovita.
La chiamata di Putin alla guerra ricorda il tragico esempio dell’ultimo zar della dinastia dei Romanov, Nicola II, che si recava vicino al fronte senza rendersi conto della rivoluzione in atto in patria, e ha poi sacrificato la sua stessa vita, insieme a tutti i familiari e i servitori, rimanendo un simbolo di una fede cieca nella redenzione del popolo contro tutte le tragedie del mondo. Le sue spoglie non sono mai state riconosciute ufficialmente dalla Chiesa ortodossa, nonostante le ossa recuperate siano disposte nella cappella imperiale della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo, per la contrarietà da parte dei devoti chiamati tsarebožniki, i “divinizzatori dello zar”, che fin dai tempi dell’emigrazione dei filo-zaristi nel periodo sovietico erano convinti che il corpo dello zar fosse stato sottratto alla terra, e le spoglie ritrovate dai sovietici negli anni Settanta fossero un inganno usato da chi voleva impadronirsene per i propri interessi.
Gli tsarebožniki esprimevano una contestazione del potere costituito, prima dei sovietici e poi dei liberali eltsiniani, fino alla stessa “democrazia illiberale” di Putin. Durante il Covid vi fu la clamorosa contestazione dell’igumeno Sergej Romanov, che dal suo monastero sugli Urali rifiutava i vaccini e ogni altra imposizione statale in nome della memoria del santo zar, e ora è rinchiuso in un lager con tanti suoi seguaci. La guerra in Ucraina permette a Putin di volgere a suo favore questa devozione all’ideale dello “zar redentore”, che sacrifica sé stesso e l’intero Paese per una causa superiore, chiamando l’intero popolo alla vocazione della guerra contro i nemici di ogni parte del mondo, e soprattutto contro quelli che sorgono all’interno del proprio cuore.
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03/10/2022 08:48