19/09/2008, 00.00
LIBANO
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La conferenza del dialogo nazionale libanese: un “passatempo” o un’uscita dalla crisi?

di Fady Noun
Come già nell’incontro promosso due anni fa da Berry, il nodo della questione è quello della “sicurezza”, il che concretamente vuol dire le armi di Hezbollah. Ma c’è chi vede tutto quanto accade come un far passare il tempo in attesa delle decisive elezioni della primavera prossima.
Beirut (AsiaNews) – E’ una conferenza di dialogo ben incerta quella che s’è aperta il 16 settembre al palazzo presidenziale, molto più di quella che si è volta tra l’8 marzo ed il 29 giugno 2006, sotto la supervisione del presidente della Camera, Nabih Berry. Quest’ultima si era fermata sulla cosiddetta alla famosa “strategia di difesa” del Libano, parola pudica dietro alla quale si nasconde il contenzioso sulle armi di Hezbollah. Dopo due anni, una devastante guerra israeliana (luglio 2006) ed una interminabile crisi politica che ci ha portato sul filo della guerra civile, niente è cambiato. Le posizioni sono sempre ugualmente in contrasto a proposito di ciò che dovrebbe essere questa “strategia”.
 
E’ questo, forse, che ha spinto il capo dello Stato, il presidente Michel Suleiman, un pragmatico, a fissare la seconda riunione del dialogo al… 5 novembre. Questa larghissima pausa di 50 giorni dovrebbe permettere ad eventuali contatti bilaterali di produrre i loro frutti. A novembre, inoltre, si ù saranno disegnati più nettamente i contorni della battaglia presidenziale americana ed i capo dello Stato avrà anche avuto l’occasione di incontrare il presidente George Bush (25 settembre), a margine della sessione ordinaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
 
Molti osservatori pensano che la conferenza di dialogo è un semplice “passatempo” in attesa delle elezioni politiche del 2009 che permetteranno ad una nuova maggioranza, incontestabile stavolta, di emergere dalle urne. A loro avviso, tutto ciò che accade ora dovrebbe essere visto come parte della campagna elettorale degli uni e degli altri, compresa quella del capo dello Stato. E’ l’opinione di uno dei ministri del governo Siniora, Ibrahim Chamseddine, che ha abbandonato la riunione del governo, giovedì scorso, per protestare conto il modo nel quale si sono prese le decisioni nel campo della sicurezza.
 
Si sa effettivamente che, dopo il colpo di forza di Hezbollah del 7 maggio, si è risveglia la divisione religiosa e politica tra sunniti e sciiti, tirandosi dietro tutte le altre rivalità politiche. Le armi leggere nelle mani della popolazione, provocano quotidiani scambi di fucilate, che fanno morti e feriti, o lanci di granate da automobili in corsa, in varie parti del Paese. In molti casi, l’esercito di contenta di osservare, di separare i protagonisti degli scontri, senza intervenire, senza recuperare le armi. E’ il caso, in particolare di Tripoli e della Bekaa, ove i sunniti di Saad Hariri, superati a destra da elementi salatiti, fanno faccia, qui, agli Alauiti pro-siriani, là agli sciiti pro-iraniani.
 
Chamseddine rimprovera al governo di trasformarsi, un po’ alla volta, di essersi rassegnato a “gestire la crisi” invece che a guidarla, di scivolare progressivamente verso la sicurezza “amichevole”, che i libanesi conoscono fin troppo e della quale hanno pagato molto caro il prezzo durante la guerra civile. Chamseddine teme anche che la conferenza del dialogo si sostituisca al governo ed al parlamento, che sarebbero ridotti a divenirne degli strumenti esecutivi. Si potrebbe speculare un po’ di più e chiedersi se, di fronte all’opposizione le cui opzioni sono perfettamente identificabili, il campo del 14 marzo ha i mezzi della sua politica. Certo, la maggioranza che contesta la strategia di Hezbollah sottolinea che cercare di fare del Libano un Paese “di confronto” è remare controcorrente nel momento in cui fanno progressi le trattative indirette tra Siria e Israele. Ed anche nel momento in cui il presidente palestinese Mahmoud Abbas fa l’impossibile per giungere ad un accordo con Israele prima che Bush lasci la Casa Bianca, Ma a cosa pesano questi ragionamenti di fronte alla realtà? Chi crede veramente che è attraverso il dialogo che Hezbollah rinuncerà a vantaggio delo Stato alle sue capacità militari? E coloro che sognano di un rafforzamento delle capacità militari del’esercito, come potranno superare il veto che Israele mette ala fornitura di certe armi di difesa al Libano, nel timore che esse cadano nelle mani di Hezbollah? Sono domande che restano senza risposta e che non sono minori delle contraddizione che segnano l’attuale scenario libanese. E’ così che la conferenza nazionale di dialogo appare come una delle parti dell’accordo di Doha (21 maggio 2008), una tregua congiunturale che deve sfociare ad un nuovo equilibrio regionale, del quale i protagonisti hanno scelto – per quanto tempo ancora? – di parlarsi invece di combattere.
 
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