23/12/2023, 00.01
MONDO RUSSO
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Le diverse logiche della guerra

di Stefano Caprio

Kiev si appresta a celebrare per la prima volta in modo unitario il Natale di Cristo il 25 dicembre, evento simbolico della sua nuova identità. Ma la vera sfida per l'Ucraina è togliere a Putin il controllo del gioco, mostrando al mondo davvero il volto di un popolo nuovo, oltre ogni logica di guerra.

Siamo ormai giunti ai due anni della “logica della guerra”, visto che già alla fine del 2021 le truppe russe si stavano schierando ai confini dell’Ucraina, iniziando poi l’invasione a febbraio 2022. Il mondo intero, già provato dal precedente biennio della pandemia, ha dovuto cambiare completamente le sue visioni del presente e del futuro, non più soltanto cercando di resistere al male che si diffonde ovunque, ma impegnandosi a rispondere a una minaccia che rischia di cancellare, o comunque sconvolgere, la civiltà che credevamo di aver costruito.

Rimane nell’animo la speranza di uscirne al più presto, che la guerra finisca come l’infezione debellata dai vaccini, per quanto anch’essa non cessi comunque d’infiltrarsi nell’anima più ancora che nei polmoni. Il succedersi dei conflitti, quello mediorientale dopo quello ucraino e quello caucasico, rende questo desiderio sempre più flebile e confuso, costringendo i governi a rivedere le misure da prendere, i partiti a riscrivere i programmi su cui confrontarsi, perfino le religioni sono chiamate a scrutare di nuovo i propri libri sacri, cercando rivelazioni che dipanino il buio della mente e del cuore.

La guerra è una delle dimensioni più antiche e persistenti della storia umana, tanto che le nazioni e le civiltà sono frutto dei conflitti, molto più che dei progressi o delle ideologie. Comprendere la logica della guerra diventa indispensabile per comprendere davvero la propria identità sociale, statale e personale, non solo quando si è aggressori o vittime, perché non si è mai soltanto spettatori più o meno interessati. Anche se la guerra è lontana, essa riguarda tutti, e nelle condizioni di un mondo sempre più interconnesso non si percepisce più nemmeno la lontananza, a prescindere dal numero dei chilometri che ci separano dal fronte.

Conviene dunque prendere coscienza di tutto ciò che comporta questo confronto con un “male assoluto” che non vorremmo mai vedere né sentire, e prestare attenzione a quanti sono in grado di offrirci degli elementi di comprensione. Uno di questi è il politologo Aleksandr Morozov, uno dei commentatori più apprezzati fin dai tempi sovietici, oggi all’estero per la sua incompatibilità con l’ideologia bellica del regime putiniano, dopo aver diretto per anni il Russkij Žurnal, una delle prime edizioni on-line di commento all’attualità.

Secondo una riflessione di Morozov pubblicata su Ekho Kavkaza, esistono almeno sei diverse logiche della guerra in corso tra Russia e Ucraina. La prima è il corso stesso della guerra, che segue dinamiche proprie legate ai bilanci delle spese militari, della produzione di armi, della logistica dei carichi da distribuire, delle mobilitazioni e coscrizioni da organizzare, e della pianificazione delle operazioni sul campo da predisporre secondo i tempi e le stagioni, se d’inverno o d’estate, con abbondante anticipo. La guerra “ha un suo corso naturale, che può essere fermato dalle decisioni politiche”, ma al momento attuale non si vedono spiragli per trattative e soluzioni a breve termine.

La seconda logica, spiega il politologo, è quella dello “sviluppo del putinismo come sistema”. Si tratta di una dimensione che attualmente si nutre quasi completamente degli effetti della “operazione speciale”, dove ha concentrato tutte le sue forze e motivazioni, ma non è originato dalla guerra, viene come conseguenza della crisi post-sovietica (quindi post-coloniale), e si proietta sul futuro post-globalista. Le tappe dell’affermarsi di questa nuova immagine della Russia sono diverse, e partono dalla “rassicurazione del popolo” di fronte alle incertezze dei primi anni dopo la fine dell’Urss. Non si tratta soltanto delle convulse trasformazioni economiche, passando da un sistema fallito come quello comunista a un sistema “disumano” come quello capitalista, che pure hanno provocato forti traumi a una popolazione abituata alla pianificazione e all’appiattimento delle condizioni sociali. I russi hanno sofferto per l’incapacità di reggere le tensioni del confronto delle idee, della libertà di pensiero, di parola e perfino di professione religiosa, e Putin ha dichiarato conclusa la fase del “pluralismo democratico” imponendo il “dominio della maggioranza”, di fatto di un conformismo passivo che delega alle autorità ogni definizione.
Questa logica parte dalla riproposizione del paradosso sovietico, quello della “lotta per la pace” (borba za mir) che impone un atteggiamento aggressivo per difendere l’uniformità e il “quieto vivere”. I russi possono anche essere scontenti della guerra in quanto tale, ma continuano a sostenere il putinismo per timore di doversi gettare di nuovo nel vortice della pluralità. L’ideologia sovietica è stata quindi sostituita dalla versione “militante” del cristianesimo ortodosso, anch’essa non certo un’invenzione dei russi, ma un retaggio di antiche diatribe teologiche e interetniche, per cui ci si sente veramente “ortodossi” solo quando si individua il nemico, “eterodosso” e quindi immorale, meglio ancora se il nemico è il mondo intero, e il nostro popolo è l’unico detentore della vera fede.

Il putinismo, ideologia imperiale, “sovietico-ortodossa”, continuerà anche dopo la guerra, e sopravvivrà alla scomparsa dello stesso Putin, fatto inevitabile e in parte già evidente. Questa è la terza logica di guerra indicata da Morozov, la “logica di Putin”, che non riguarda tanto la personalità del padrone del Cremlino, in sé una figura decisamente mediocre, anzi scelta proprio per questo dalla classe al potere in Russia. È una logica di casta, che non si regge sulla “ideologia di Stato”, confezionata per le masse da mantenere in stato di sottomissione. Gli uomini forti dell’economia, della politica e dell’esercito, il “Putin collettivo” che alla fine degli anni ’90 ha sostituito la “famiglia” di Eltsin, ha un solo problema da risolvere: conservare il potere senza limiti di spazio, di tempo o di struttura.

Per questo motivo, suggerisce il politologo, è necessario mantenere sempre alta la tensione all’esterno del Paese, potendo più facilmente compattare la società all’interno. Serve una continua escalation del conflitto, in modo da sorprendere i nemici “non là dove se l’aspettano, e non nella forma che si prevede”, per tenere il pallino in mano. Se gli analisti di tutto il mondo paventano l’uso delle armi tattiche nucleari o l’invasione dell’Estonia, Putin e i suoi leggono questi rapporti e si muovono di conseguenza, rilanciando le minacce con esercitazioni militari sul mar del Giappone, o trasferendo gli armamenti nucleari in Bielorussia. La Russia non cerca la guerra totale, ben sapendo che potrebbe soccombere, ma la continua ricarica della tensione, magari appoggiando la riconquista azera del Karabakh, o la rivolta terrorista di Hamas, e lasciando intendere che potrebbero esserci problemi con la Finlandia o il Kazakistan.

Anche volendo, Putin non può più fermare la guerra e non ha alcun interesse a concluderla, ma la alimenta come “il tema musicale fondamentale” su cui gli strateghi del Cremlino scrivono continui arrangiamenti, dal rock duro al balbettio del rap, magari facendo pause di “armistizi tattici”, per poi riprendere il ritornello del conflitto aperto.

La quarta logica indicata da Morozov è quella americana, in cui l’Ucraina e la guerra sono argomenti di una lotta politica interna degli Usa, anch’essa soggetta a squilibri di potere. Se è ovvio che Washington si contrapponga a Mosca, come da tradizione ormai secolare, è altrettanto evidente che gli americani agiranno in base alle proprie necessità, e se dovessero abbandonare l’Ucraina questo avverrà in modo improvviso e radicale come è accaduto in Afghanistan, la circostanza che ha incoraggiato Putin a iniziare la sua guerra.

Diversa è invece la quinta logica, quella dell’Europa. Prima dei conflitti putiniani, l’Unione europea sembrava un intreccio mal riuscito e destinato a decadere progressivamente, mentre con l’ingresso dell’Ucraina, Paese simbolo della difesa di tutto il continente, oggi l’Europa è costretta a ripensarsi, ad allargarsi nuovamente fino al Caucaso, e riprendendo il discorso interrotto nei Balcani, facendo i conti sempre più intensamente perfino con la Turchia. Le elezioni europee del 2024 saranno per la prima volta più importanti di quelle nazionali, e l’Europa deve esprimere finalmente una sua logica di pace, rispondendo alla guerra con una nuova idea del suo futuro.

C’è infine l’ultima logica, quella dell’Ucraina, che si appresta a celebrare per la prima volta in modo unitario il Natale di Cristo al 25 dicembre, evento simbolico della nuova identità e di un nuovo popolo, staccatosi dall’Oriente per vivere in sintonia con l’Occidente e l’Europa. È una logica in bilico, non solo tra distruzione e ricostruzione, tra esilio e riconciliazione, ma anche tra le stesse forze interne della sua politica e delle sue Chiese, ortodosse e cattoliche, impegnate in un difficile tentativo di ricomposizione. L’esito della guerra non interessa tanto i russi, ma è in mano veramente agli ucraini, non tanto per la possibile riuscita della controffensiva o della riconquista della Crimea. L’Ucraina deve dire quando la guerra è finita, qualunque siano le condizioni dei confini e dei territori contesi, togliendo a Putin il controllo del gioco: deve mostrare al mondo il volto di un popolo nuovo, con cui possiamo costruire insieme una civiltà nuova, in tutti i continenti e oltre ogni logica di guerra.

 

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