Nazeeran e Amir, da schiavi del lavoro forzato a testimoni di speranza
Per anni una madre, con problemi di salute, e il figlio hanno vissuto in condizioni di schiavitù in una fabbrica di mattoni in Pakistan. Un debito contratto col proprietario dopo la morte del marito si è rivelato una trappola. La libertà ritrovata grazie all’intervento di un attivista cristiano. Ora la sfida di ricostruire le loro vite partendo da zero, senza casa, né risparmi, né una fonte di reddito stabile.
Lahore (AsiaNews) - Per anni Nazeeran Bibi, una vedova cristiana di 62 anni affetta da paralisi parziale e tumore cerebrale, e suo figlio Amir Masih di 20 anni, hanno vissuto sotto il peso schiacciante del lavoro forzato in una fabbrica di mattoni. Una forma moderna di schiavitù denunciata a più riprese in passato da AsiaNews, che continua però a intrappolare migliaia di famiglie povere in tutto il Pakistan. La loro storia - come quella di altre famiglie - è fatta di profonda sofferenza, ma anche di fede, coraggio e di una speranza infine ritrovata. Dopo la morte del marito, Nazeeran ha lottato con tutte le sue forze per provvedere al sostentamento del figlio piccolo. Con opportunità limitate e senza alcuna rete di sicurezza sociale, la donna ha preso in prestito una piccola somma dal proprietario di una fabbrica di mattoni per coprire le necessità di base. Tuttavia, quel debito si è presto trasformato in una trappola.
“Il proprietario mi ha detto che non sarei mai potuto andarmene finché non avessi ripagato il prestito”, ha ricordato con le lacrime agli occhi. “Ma ogni volta che lavoravamo, aumentavano il debito. Eravamo - lamenta - come prigionieri”. Giorno dopo giorno, madre e figlio lavoravano sotto un caldo torrido, producendo e trasportando mattoni dall’alba al tramonto. I loro magri guadagni coprivano a malapena il cibo ed erano costantemente sorvegliati per impedire loro di fuggire. La loro odissea è terminata quando le loro grida sono giunte a Rojar Randhawa, un attivista sociale cristiano che gestisce anche Love Your Neighbor - Mission Love Movement, il quale è intervenuto per garantire il loro rilascio.
Il salvataggio è stato effettuato in modo sicuro e sia Nazeeran che Amir sono stati portati in un luogo nascosto dove hanno ricevuto cibo, cure mediche e sostegno psicologico ed emotivo per i traumi subiti. “È stato un miracolo” afferma Amir Masih. “Abbiamo pregato ogni giorno per la libertà. Dio ha ascoltato le nostre preghiere”. La libertà, però, è solo l’inizio di un nuovo capitolo. Dopo aver trascorso anni in schiavitù, madre e figlio devono affrontare la sfida di ricostruire le loro vite partendo da zero. Non hanno una casa, né risparmi, né una fonte di reddito stabile.
Per garantire una transizione agevole e dignitosa, Rojar Randhawa e i suoi amici che condividono la sua stessa visione hanno avviato un piano di riabilitazione e reinsediamento per la famiglia. Questo include: un piccolo carretto di frutta e verdura per fornire un reddito sostenibile ad Amir; assistenza per l’affitto per tre mesi per garantire un alloggio sicuro; consulenza continua e sostegno della comunità per aiutarli ad adattarsi alla loro ritrovata libertà.
Questi passi modesti ma fondamentali aiuteranno la famiglia a vivere in modo sicuro e indipendente, rompendo il ciclo di povertà e sfruttamento. La storia di Nazeeran e Amir è un potente richiamo alla chiamata di Cristo a “proclamare la libertà ai prigionieri” (Luca 4:18). Essa sfida la Chiesa a stare dalla parte degli oppressi e ad offrire amore concreto a coloro che hanno subito ingiustizie. Come dice Nazeeran: “Ringrazio Dio e coloro che ci hanno aiutato. Ora voglio solo vivere in pace e vedere mio figlio costruirsi una nuova vita”.
Le sue parole sono fonte di speranza per innumerevoli altre persone in schiavitù che desiderano denunciare e lottare contro la loro condizione, oltre a simboleggiare la missione che il Corpo di Cristo continua a portare avanti. Parlando con AsiaNews, Rojar Randhawa spiega: “È stato straziante vedere le condizioni di Nazeeran Bibi, una vedova di 62 anni che ha trascorso anni intrappolata nel lavoro forzato, soffrendo di un doloroso tumore alla fronte e di una parziale paralisi. Nessuno merita di vivere in tale miseria e disperazione. Quando ho saputo della sua situazione, ho capito che non potevamo stare a guardare senza fare nulla”.
“Con l’aiuto dei miei amici cristiani e di persone di buona volontà, siamo riusciti a mobilitare le risorse necessarie per pagare il suo debito e ottenere il suo rilascio. È stato davvero stimolante vedere la compassione e la generosità di persone che si sono fatte avanti per aiutare una donna che non avevano mai incontrato. Questo salvataggio - prosegue l’attivista - ci ricorda che quando siamo uniti possiamo spezzare le catene dell’oppressione e restituire la dignità a coloro che sono stati dimenticati”. La libertà di Nazeeran “non è solo una sua vittoria personale, ma una vittoria per l’umanità, per la fede e per la speranza. Prego - conclude Rojar Randhaw - affinché la sua storia incoraggi altri a tendere la mano e aiutare coloro che vivono ancora in schiavitù”.
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