01/03/2023, 12.06
CINA
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Nel 2022 Pil cinese cresciuto meno della metà di quello indiano

Economia di Pechino ha segnato un +3%, quella di Delhi al +7%. Pesano gli effetti della politica zero-Covid di Xi Jinping e del calo della domanda mondiale. L’India si affida più ai consumi interni. La Cina punta alla ripresa quest’anno, ma difficile un superboom. Pessimiste le imprese Usa che operano nel mercato cinese.

Pechino (AsiaNews) – Lo scorso anno l’economia cinese è cresciuta del 3%, meno della metà di quella indiana, che le ultime proiezioni danno al 7%. È quanto emerge dalla comparazione tra i dati appena pubblicati dall’Ufficio nazionale di statistica cinese e da Delhi.

L’obiettivo del governo cinese per il 2022 era di una crescita del Pil al 5,5%. Esperti indiani hanno sottolineato a Nikkei Asia che il rallentamento della Cina è dovuto alle stringenti regole anti-Covid in vigore nel Paese fino a dicembre e alla dipendenza di Pechino dall’export mentre la domanda mondiale è scesa a causa degli effetti della guerra russo-ucraina e degli alti costi dell’energia.

Al contrario l’India ha fatto meglio perché è “meno integrata” nell’economia globale e fa più affidamento sulla domanda interna. Dallo scoppio della pandemia tre anni fa, e con l’intensificarsi della guerra commerciale e tecnologica con gli Usa, Xi Jinping ha puntato sul rafforzamento della domanda interna, ma finora con risultati alterni.

In termini reali, la spesa pro capite in Cina è diminuita dello 0,2% dopo aver registrato una crescita del 12,6 nel 2021 – la base di riferimento era però molto bassa, dato il picco del Covid l’anno prima. Si tratta solo del terzo calo dal 1980, da quando le autorità hanno iniziato a pubblicare statistiche di questo tipo. Hanno avuto una contrazione dello 0,2% anche le vendite al dettaglio, il metro dei consumi interni: il secondo peggior dato dal 1968.

Ancora più significativo il crollo degli impieghi urbani nel Paese, il primo registrato dal 1962, appena dopo la carestia provocata dal “Grande balzo in avanti”, la disastrosa politica economica portata avanti da Mao Zedong dal 1958 al 1961. Lo scorso anno la Cina ha perso 8,4 milioni di posti di lavoro nelle città, fermandosi a un totale di 459,3 milioni.

Oltre alla draconiana politica “zero-Covid” di Xi, pesano sull’occupazione la contrazione della forza lavoro per l’invecchiamento della popolazione e il rallentamento nella crescita di lavoratori migranti che si spostano dalle campagne alle città.  

Con il ritiro delle restrizioni sanitarie si aspetta una accelerazione dell’economia cinese, che per molti analisti non sarà però un superboom, come previsto da diversi osservatori a inizio anno. Dopo 19 mesi di caduta, a febbraio è tornata a crescere la vendita di nuove abitazioni; data in crescita lo scorso mese anche l’attività industriale e nel settore dei servizi.

Un sondaggio della Camera di commercio Usa in Cina mostra però che le imprese statunitensi presenti nel Paese sono più pessimiste sulle loro prospettive. Lo studio rivela che per la prima volta in 25 anni le aziende americane non considerano più il gigante cinese tra le prime tre priorità d’investimento. Temono le tensioni geopolitiche tra Washington e Pechino, e un mercato locale ancor più chiuso e regolamentato come risultato degli sforzi di centralizzazione del potere nelle mani di Xi e del Partito comunista cinese.

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