05/07/2022, 10.03
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Nunzio a Damasco: fra guerra e povertà, la carità cristiana è ‘punto di incontro’

di Dario Salvi

Per il card. Zenari in Siria si sperimenta quella che Giovanni Paolo II chiamava “la fantasia della carità”. Chiesa e cristiani moltiplicano le iniziative di solidarietà, ma pesa l’emigrazione che rischia di svuotare la comunità. La condivisione del dolore e della sofferenza con una nazione ferita; i bambini le vittime principali del conflitto. 

Milano (AsiaNews) - In Siria si sperimenta quella che Giovanni Paolo II chiamava “la fantasia della carità”, che spinge a promuovere “progetti e iniziative, dal cibo all’acqua, agli aiuti in campo medico” a fronte di risorse che si fanno più scarne e una realtà sempre più drammatica. Così il nunzio apostolico a Damasco, il card. Mario Zenari, diplomatico vaticano di lungo corso che non ha mai abbandonato il Paese anche nei momenti più bui del conflitto, racconta ad AsiaNews la situazione attuale della Siria. Lo abbiamo intervistato durante il recente soggiorno in Italia, durante il quale è stato ricevuto in udienza privata da papa Francesco col cui ha condiviso una realtà che si fa sempre più difficile, per una nazione “sparita” ormai da tempo dai radar della comunità internazionale.

Ciononostante la Chiesa, e i cristiani, continuano - e se possibile moltiplicano - le loro iniziative a partire dal progetto “Ospedali aperti che in meno di cinque anni ha assistito in maniera gratuita oltre 80mila malati di ogni etnia, religione e provenienza sociale”. E in un quadro di risorse che si fanno limitate, l’obiettivo spiega il porporato è “aprire altri due ambulatori cattolici, per raggiungere la quota di 100mila ammalati poveri curati nelle nostre strutture”. Perché la carità, afferma convinto, “quando è aperta a tutti trova grande riconoscenza anche da parte dei non cristiani, e diventa un punto di incontro”. Di seguito, l’intervista al card. Zenari:

Eminenza, qual è la situazione della Siria oggi?
Vi è uno stallo per quanto riguarda la possibile soluzione politica, che è la chiave per uscire da questi malanni di 12 anni di guerra. Gli aiuti umanitari sono necessari, ma sono delle gocce d’acqua nel deserto. La soluzione di tutto è politica come si ripete nella varie assise internazionali e come sottolinea l’inviato speciale Onu, perché senza di essa non vi è un futuro. Purtroppo, essa è ancora molto lontana. 

Dove si possono scorgere elementi di speranza in questo quadro dalle tinte fosche?
Le Chiese sono impegnate nel promuovere progetti umanitari e qui partirei da un segno molto positivo e incoraggiante, rappresentato dalla conferenza che si è tenuta a marzo di tutte le realtà cattoliche. Un bel segno di sinodalità e la conferma di quanto la nunziatura esprimeva da anni, ovvero la necessità di coordinare i vari progetti umanitari. Lo stesso card. Sandri [prefetto delle Chiese orientali], quando è venuto in visita nell’ottobre scorso, ha insistito per questo incontro che ha riunito per tre giorni a Damasco tutte le 16 eparchie, i rispettivi ordinari, esponenti dei vari dicasteri vaticani, il segretario della Roaco, la Caritas internazionale, e ancora istituzioni umanitarie della Chiesa in Siria, delle congregazioni religiose maschili e femminili, personalità dei tre ospedali cattolici… un segnale molto incoraggiante! Si è trattato dell’evento più significativo dopo la visita 21 anni fa di san Giovanni Paolo II, perché ha permesso di incontrarsi, confrontarsi e conoscersi. Da qui si parte per coordinare e rilanciare la raccolta degli aiuti.

Oggi si parla di “bomba della povertà” che fa più vittime della guerra. La situazione umanitaria resta drammatica?
Il quadro si è aggravato, come riferiscono le Nazioni Unite secondo cui le sofferenze non sono mai state a livelli così elevati nemmeno negli anni della guerra. Oltre a un numero imprecisato di morti, forse mezzo milione, abbiamo circa 14 milioni di persone senza casa, poco meno di sette milioni di sfollati interni con un inverno, l’ultimo, durissimo che ha causato il crollo di molte tende. Altri sette milioni circa rifugiati nei Paesi circostanti… 14 milioni su 23 milioni, pari al totale della popolazione nell’ultimo censimento. Una crisi che fa rabbrividire, cui si sommano 13 milioni che necessitano di assistenza umanitaria urgente. Ad aggravare un quadro già complicato il fatto che la Siria, da almeno tre anni, è dimenticata e superata da altre emergenze: crisi libanese, economico-finanziaria, la pandemia di Covid-19 e infine l’Ucraina. 

La popolazione siriana percepisce questa sorta di abbandono?
Quello che vedo uscendo dalla nunziatura e incontrando le persone, soprattutto i giovani, è il desiderio di partire, di poter fuggire, di emigrare. Non vedono un futuro e preferiscono, in un modo o nell’altro, lasciare il Paese e questa è una ulteriore aggravante, perché se ne va gente giovane, qualificata, medici, ingegneri, la forza lavoro: questa è un’altra bomba che ha effetti anche sui cristiani, che sono l’anello più debole. Ad oggi è emigrata oltre la metà della comunità cristiana, a volte persi per sempre perché andando in Sud America o Europa sono costretti a unirsi a una Chiesa maggioritaria, che è quella latina, perdendo l’identità orientale. Ed è una perdita anche sociale, per il contributo dato con il loro spirito aperto e universale nel campo dell’educazione o della sanità. 

Come prosegue l’iniziativa “Ospedali aperti”, una delle tante attività promosse dalla Chiesa?
Stiamo moltiplicando gli sforzi per gli aiuti umanitari, ma vi è da operare con molta pazienza e tenacia perché dopo tanti anni gli aiuti e le risorse vanno diminuendo, basti pensare al flusso dall’Europa. I “cinque pani e due pesci” evangelici sono sempre meno, quindi dobbiamo cercare di organizzarci sempre meglio e il risultato di questa conferenza a metà marzo è appunto anche questo, camminare assieme e ottimizzare le risorse dedicate ai progetti umanitari.

Card. Zenari, può fare un bilancio dei suoi 13 anni da nunzio?
Ho cercato di vivere con i cristiani, ho sperimentato tanta sofferenza, ho cercato di partecipare a questa sofferenza e condividerla, un dolore esteso a tutta la Siria. Ho provato a condividere questo mare di dolore, mi sento molto legato a questo popolo. Una catastrofe, una tragedia enorme, quello che i miei occhi hanno visto e il cuore ha provato, un qualcosa di terribile e profondo, impossibile da esternare. Al contempo ho visto e sperimentato tanta solidarietà, ho vissuto la sofferenza di tanti bambini che sono le prime vittime e le principali vittime di questo conflitto.

Al contempo resta la speranza, che non muore mai, che un giorno o l’altro si veda la fine di questo tunnel. Incoraggiati dal papa abbiamo sperimentato quella che Giovanni Paolo II chiamava la “fantasia della carità”, la creatività della carità con varie iniziative e progetti: dal cibo all’acqua, agli aiuti in campo medico. Un esempio: il progetto “Ospedali aperti” in meno di cinque anni ha assistito gratuitamente più di 80mila malati poveri di qualsiasi etnia, religione. Vogliamo realizzare altri due ambulatori cattolici, per raggiungere 100mila ammalati poveri curati di qualunque etnia e religione. Quando la carità è aperta a tutti si trova molta riconoscenza da parte dei non cristiani [la Siria è una nazione a maggioranza musulmana], perché la carità tocca e diventa punto di incontro.

Papa Francesco l’ha incoraggiata a proseguire la sua opera?
Quello con il papa è stato un bell’incontro, molto incoraggiante e gratificante. Mi ha esortato a continuare, portando i suoi saluti e la sua vicinanza alla popolazione cristiana e a tutti i siriani. 

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