Patriarchi: sacerdoti e suore resteranno a Gaza City, testimoni di carità
Il card. Pizzaballa e il greco-ortodosso Teofilo III respingono la prospettiva di “evacuazione” di fronte all'operazione militare israeliana "che è già realtà". "Non può esserci futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta”. Il servizio a una popolazione devastata dalla fame e dalla guerra delle suore di Madre Teresa, arrivate nel 1973 dopo l'uccisione del parroco di allora. A Tel Aviv la “Giornata nazionale di lotta” del Forum delle famiglie degli ostaggi e degli scomparsi.
Milano (AsiaNews) - Davanti alla sofferenza di un popolo in quello che può essere già oggi definito “l’inferno” sulla terra - richiamando le minacce rivolte dal ministro della Difesa Israel Katz contro Hamas - il clero e le suore delle Chiese cattolica e greco-ortodossa a Gaza affermano con forza la decisione di “restare”. Niente evacuazione, nessuna fuga davanti all’offensiva delle Forze di difesa israeliane (Idf), ma il desiderio di proseguire nella missione e testimoniare misericordia e carità cristiana in una Striscia devastata dalla fame e dalla guerra. È quanto hanno affermato oggi, in un comunicato congiunto pubblicato sul sito del patriarcato, il primate greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III e quello dei latini card. Pierbattista Pizzaballa, con l’obiettivo di continuare a fornire assistenza e aiuto a quanti non possono fuggire. Perché, avvertono i due leader cristiani, “non può esserci futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta”.
“Le porte dell’inferno”
In apertura della dichiarazione congiunta, il patriarca latino e il greco-ortodosso ricordano che “qualche settimana fa, il governo israeliano ha annunciato la sua decisione di prendere il pieno controllo della città di Gaza”. Nei giorni scorsi sono aumentate le voci di una “massiccia mobilitazione militare e dei preparativi per un’imminente offensiva. Le stesse notizie indicano che la popolazione della città di Gaza, dove vivono centinaia di migliaia di civili - e dove si trova la nostra comunità cristiana - sarà evacuata e trasferita a sud della Striscia”. Ad oggi, proseguono, sono già stati emessi “ordini di evacuazione” per diversi quartieri della città di Gaza e “continuano ad arrivare notizie di pesanti bombardamenti”. Al contempo, “si registrano ulteriori distruzioni e morti in una situazione già drammatica prima dell’inizio dell’operazione. Sembra che l’annuncio del governo israeliano secondo cui ‘si apriranno le porte dell’inferno’ stia effettivamente assumendo contorni” che i leader cristiani di Terra Santa definiscono “tragici”. “L’esperienza delle passate campagne a Gaza, le intenzioni dichiarate dal governo israeliano riguardo all’operazione in corso e le notizie che ci giungono dal terreno - sottolineano - dimostrano che l’operazione non è solo una minaccia, ma una realtà che è già in fase di attuazione”.
Il card. Pizzaballa e Teofilo III ricordano inoltre che le stesse istituzioni cristiane della Striscia, dal complesso greco-ortodosso di San Porfirio a quello latino della Sacra Famiglia non sono stati risparmiati dal conflitto, pur essendo “un rifugio per centinaia di civili”. “Tra loro ci sono anziani, donne e bambini. Nel complesso latino - prosegue la dichiarazione - ospitiamo da molti anni persone con disabilità, assistite dalle Suore Missionarie della Carità. […] Tra coloro che hanno cercato riparo all’interno delle mura dei complessi, molti sono indeboliti e malnutriti a causa delle difficoltà degli ultimi mesi. Lasciare Gaza City e cercare di fuggire verso sud - avvertono - equivarrebbe a una condanna a morte. Per questo motivo, i sacerdoti e le suore hanno deciso di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che si troveranno nei due complessi”. “Non sappiamo esattamente cosa accadrà sul posto, non solo per la nostra comunità, ma per l’intera popolazione. Possiamo solo ripetere - prosegue la nota dei capi cristiani - ciò che abbiamo già detto: non può esserci futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta” e rilanciando le parole di papa Leone XIV secondo cui “tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti”.
Infine, condannando “lo sfollamento deliberato e forzato di civili” i patriarchi affermano che “è tempo di porre fine a questa spirale di violenza, di porre fine alla guerra e di dare priorità al bene comune delle persone” compresi gli ostaggi israeliani - e stranieri - ancora nelle mani di Hamas. “Non vi è alcuna ragione che giustifichi tenere dei civili prigionieri o ostaggi in condizioni drammatiche. È ora che le famiglie di tutte le parti in causa, che hanno sofferto a lungo, possano avviare percorsi di guarigione. Con uguale urgenza, facciamo appello alla comunità internazionale - concludono - affinché agisca per porre fine a questa guerra insensata e distruttiva, e affinché le persone scomparse e gli ostaggi israeliani possano tornare a casa”.
Suore testimoni di carità
La nota congiunta dei patriarchi mostra una volta di più l’unità dei capi cristiani di Gerusalemme, dopo la visita comune del card. Pizzaballa e del patriarca Teofilo III nella Striscia a luglio, in risposta all’attacco al complesso della Sacra Famiglia con i suoi tre morti e numerosi feriti. Uno dei passaggi più significativi della dichiarazione dei patriarchi, oltre al doveroso appello per la fine della guerra e il rilascio dei prigionieri, è quello riservato a religiosi e religiose che scelgono di restare per dare un messaggio di amore e carità davanti alle devastazioni. In quasi due anni di conflitto ha assunto particolare valore l’opera delle suore di Madre Teresa che “da molti anni” si prendono cura delle “persone con disabilità”. Anche loro, come i sacerdoti, hanno scelto di continuare a occuparsi di quanti si trovano a San Porfirio e nella Sacra Famiglia e non hanno altro luogo in cui rifugiarsi. Le Missionarie della Carità condividono da oltre 52 anni le sorti della comunità cristiana e non della Striscia, enclave da tempo considerata “prigione a cielo aperto” per i suoi due milioni circa di abitanti e che oggi conta oltre 62mila morti, in larga maggioranza civili.
Il loro arrivo risale al febbraio 1973, poche settimane dopo l’uccisione dell’allora parroco latino p. Hanna Al-Nimri, ed è stato sin da subito caratterizzato dalla “condivisione delle sofferenze di questa terra martoriata” tanto da compiere il difficile compito di “ripulire le pareti insanguinate”. Nonostante le difficoltà legate alle numerose guerre e al blocco ormai da anni imposto a Gaza, le suore sono una presenza fondamentale per la Sacra Famiglia. Nelle loro case per bambini e adulti fragili “accolgono 70 persone” e, oltre a offrire da anni assistenza spirituale alla piccola comunità cattolica, non mancano di visitare “centinaia di case di poveri, bisognosi e malati”. Nelle prime settimane del conflitto, ad ottobre 2023, AsiaNews aveva raccolto una testimonianza delle religiose, preoccupate più per il futuro di deboli e malati, che della loro stessa vita: “Non siamo preoccupate per noi - affermavano - ma per i bambini disabili e gli anziani costretti a letto con le piaghe da decubito. E anche per le 600 persone che si sono rifugiate nel nostro convento dopo aver perso la casa in questi giorni a causa dei bombardamenti”.
In piazza per gli ostaggi
Intanto in Israele monta la protesta dei parenti e familiari degli ostaggi, di nuovo in piazza per chiedere al governo e alle massime istituzioni del Paese di mediare con i sequestratori la liberazione dei congiunti, la cui sorte è ogni giorno di più fonte di preoccupazione. Una folla si è riunita nella piazza degli ostaggi a Tel Aviv nel contesto della “Giornata nazionale di lotta” indetta dal Forum delle famiglie degli ostaggi e degli scomparsi. Capannelli di protesta si registrano anche all’esterno delle abitazioni dei ministri di governo. Dopo lo sciopero generale della scorsa settimana, questa giornata è parte della cosiddetta “azione civile” per sensibilizzare i vertici dello Stato ebraico per la firma di un accordo che porti alla liberazione di quanti si trovano ancora oggi nelle mani di Hamas. Al centro della piazza degli ostaggi campeggia un lungo tavolo foderato da sedie gialle, ognuna contrassegnata dal volto di un rapito. I piatti sono pronti ma vuoti. Pezzi di pita, lattine di fagioli e sabbia sono sparsi sulla tovaglia nera, evocando la fame e le condizioni disumane di cattività. Di pari passo cresce l’indignazione e la condanna di gruppi attivisti e governi internazionali per il doppio attacco di ieri all’ospedale Nasser di Khan Younis, che ha causato fra gli altri la morte di cinque giornalisti che stavano raccontando in diretta la guerra. Il premier Benjamin Netanyahu ha parlato di “tragico incidente”. Tuttavia, dall’inizio del conflitto i cronisti locali caduti negli attacchi o nelle operazioni militari dello Stato ebraico sono ormai oltre 200. Di contro, il governo israeliano continua a proibire l’ingresso di giornalisti occidentali e dei media stranieri nella Striscia, rilanciando al temp stesso il racconto di 10 influencer “embedded” secondo cui a Gaza non vi è carestia e le accuse di “fame” sarebbero solo “menzogne”.
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