Pechino: in due nuove leggi la repressione linguistica delle minoranze
Il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo ha esaminato un nuovo quadro normativo che impone l'utilizzo del mandarino in tutti i settori. Si rischia la scompaia della possibilità del bilinguismo, soprattutto in Tibet e Xinjiang, due regioni in cui vengono invitati sempre più influncer internazionali per promuovere una visione positiva contro i rapporti delle organizzazioni internazionali che criticano le violazioni dei diritti umani.
Pechino (AsiaNews) - A inizio settimana il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, l’organo legislativo cinese, ha esaminato due proposte di legge che hanno l’obiettivo dichiarato di rafforzare l’integrazione delle minoranze etniche attraverso la promozione della lingua nazionale, sia parlata che scritta.
Il primo testo è una bozza della “Legge per la promozione dell’unità e del progresso etnico”, considerata un “requisito urgente per costruire una forte coscienza di comunità della nazione cinese e avanzare nella costruzione di un’identità nazionale unificata”, secondo l’agenzia statale Xinhua. Divisa in sette capitoli, la legge copre aspetti come l’identità culturale, l’integrazione sociale, lo sviluppo economico con un’attenzione particolare agli scambi interetnici attraverso iniziative culturali, educative e turistiche.
Il secondo intervento legislativo riguarda invece la revisione della “Legge sulla lingua cinese standard parlata e scritta”, varata nel 2001. La nuova bozza introduce 32 articoli per estendere e regolamentare l’uso del mandarino in tutti i settori: dai servizi pubblici all’istruzione, dalla comunicazione internazionale agli spazi digitali. Secondo Xinhua, la lingua nazionale è “un elemento fondamentale della cultura cinese e un simbolo della nazione, al pari della bandiera, dell’inno e dello stemma”. Inoltre l’apprendimento del mandarino diventa non solo un obbligo politico ma anche un diritto della popolazione cinese.
Anche se alcuni commentatori sostengono che le due iniziative non sembrano escludere del tutto la possibilità che vengano mantenute forme di bilinguismo laddove necessario, si tratta di un’iniziativa che chiaramente si inseriscono nella più ampia strategia del presidente Xi Jinping, secondo cui la “costruzione di una comunità nazionale cinese” deve essere la linea guida per le politiche nei confronti delle minoranze etniche. Già il terzo plenum del luglio scorso e una riunione del Politburo del 29 agosto avevano ribadito la necessità di una cornice legislativa più stringente per consolidare l’unità nazionale e rafforzare la leadership del Partito.
La revisione della legge sulla lingua, in particolare, ha come obiettivo di fare in modo che tutti i documenti e le segnaletiche, per esempio, siano realizzati in cinese mandarino. Anche se oggi l’idioma è parlato da oltre l’80% della popolazione e più del 95% ne conosca i caratteri, in alcuni ambiti, secondo il governo, la promozione resta “disomogenea” e la regolamentazione “scarsa”.
Le nuove leggi arrivano anche dopo anni di critiche internazionali verso le politiche cinesi in Tibet e Xinjiang, dove l’assimilazione culturale e linguistica ha comportato l’erosione delle tradizioni locali. Anche in Mongolia interna si sono viste misure come l’obbligo del mandarino come lingua d’insegnamento, la censura di opere artistiche e l’abrogazione di normative locali non allineate.
Diverse associazioni per i diritti umani hanno sottolineato le contraddizioni tra le garanzie previste dalla Costituzione, che riconosce 56 minoranze etniche, e l’attuazione delle politiche linguistiche. In Tibet il sistema educativo tradizionale venne smantellato in seguito all’occupazione cinese, mentre è dalla metà degli anni ‘90 che le lingue minoritarie hanno cominciato a essere insegnate come materie extracurriculari. Negli ultimi anni, però, la repressione linguistica è ulteriormente aumentata: secondo il Tibet Policy Institute, per esempio, agli studenti locali è stato proibito di ricevere lezioni private di lingua tibetana durante le vacanze e sono stati invece invitati a concentrarsi esclusivamente sul miglioramento del loro mandarino. Le autorità cinesi, inoltre, hanno bloccato numerosi siti web in lingua tibetana e anche la versione cinese di TikTok (Douyin) ha rimosso completamente la funzionalità in lingua tibetana.
Negli ultimi anni, inoltre, sempre più influencer sono stati ingaggiati dal Partito comunista cinese per contrastare la narrativa occidentale che pone da tempo l’accento sulle violazioni dei diritti umani in Tibet (che Pechino nei documenti ufficiali chiama “Zixang”, utilizzando il nome in mandarino della regione) e in Xinjiang, dove vive la minoranza uigura. La comunicazione da parte della Cina cerca al contrario di promuovere i presunti “sviluppi positivi” che si sono verificati in queste regioni, come per esempio l’aumento del reddito pro capite per la popolazione. A Lhasa, capitale del Tibet è stato creato lo scorso anno un “centro di comunicazione internazionale” per una “comunicazione internazionale più efficace per le questioni legate al Tibet”.
Sul Global Times, il quotidiano che fa capo al Partito comunista cinese, è stato più volte descritto come i visitatori stranieri hanno appreso “degli ultimi successi economici dello Xinjiang, della libertà religiosa e dell'integrazione etnica”. A chi visita queste regioni sono imposte rigorose linee guide per controllare che i contenuti diffusi online corrispondano alla narrazione promossa da Pechino, nonostante diversi rapporti documentino invece l’internamento di massa degli uiguri, il lavoro forzato imposto ai membri delle minoranze o i restrittivi programmi di controllo delle nascite. Secondo diversi commentatori, le immagini diffuse dagli influencer sono perlopiù dirette al pubblico giovane dei social, che spesso non ha memoria delle grandi campagne internazionali di denuncia sullo Xinjiang e in particolare sul Tibet.