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VERSO IL CONCLAVE/22
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Pizzaballa: il ritorno di Gerusalemme in un conclave

di Giorgio Bernardelli

Bergamasco, 60 anni, riporta la "Chiesa madre" dopo secoli tra gli elettori di un Papa. A Gerusalemme da ormai 35 anni, frate francescano da sempre in dialogo con il mondo ebraico ma anche con l'islam, è stato per 12 anni Custode di Terra Santa. Nei tanti momenti tragici del conflitto israelo-palestinese - compresi gli ultimi due anni - ha esortato a coltivare la libertà della pace, senza lasciarsi schiacciare dall'odio. E facendo risuonare di nuovo il Vangelo nella terra di Gesù.

Milano (AsiaNews) – Un patriarca latino di Gerusalemme in un conclave è un fatto che non capitava da secoli. L’ultimo risale ai tempi in cui questo titolo era dato a un arcivescovo residente lontano dalla Terra Santa, prima cioè del 1847 quando Pio IX istituì di nuovo questa figura con sede davvero a Gerusalemme. Al di là di tanti discorsi su di lui che si leggono sui media di tutto il mondo in queste ore, basterebbe da solo questo fatto a dire l’importanza della presenza del card. Pierbattista Pizzaballa tra gli elettori che da domani si riuniscono nella Cappella sistina. Un rappresentante dalla “Chiesa madre” di Gerusalemme tra gli elettori del successore di Pietro. Ma anche un presule che - con la sua autorevolezza e il suo profilo personale - in questi anni ha costantemente ricordato che Gerusalemme è prima di tutto il luogo della Pentecoste, il punto di partenza dell’annuncio del Vangelo alle genti di tutto il mondo.

Il card. Pizzaballa è nato nel 1965 a Cologno al Serio, nella diocesi italiana di Bergamo, la stessa da cui proveniva Giovanni XXIII. Entrato giovanissimo nei seminari dei frati minori conventuali, ha emesso la sua professione solenne nel 1989 per essere poi ordinato sacerdote l’anno successivo a Bologna dal card. Giacomo Biffi. Ma sono state Gerusalemme e la Terra Santa, dove vive ormai da 35 anni, ad aver segnato la sua vita. Nella Città Santa giunse nel 1990 come studente presso lo Studium Biblicum Franciscanum, dove ha svolto i suoi studi di specializzazione teologica sulla Sacra Scrittura, che ha insegnato come biblista ed è il punto di riferimento costante del suo magistero. Ma a Gerusalemme ha studiato anche alla Hebrew University, lo storico ateneo sul Monte Scopus, dove ha approfondito la conoscenza della lingua ebraica moderna e della sua cultura, oltre alle lingue semitiche.

Il servizio all’interno del vicariato di San Giacomo - la piccola comunità di radice ed espressione ebraica all’interno del patriarcato latino di Gerusalemme - è stata a partire dalla metà degli anni Novanta la sua prima importante esperienza pastorale. A partire da un luogo significativo come la Casa Simeone e Anna che - in occasione del Giubileo del 2000, per volontà dell’allora patriarca Michel Sabbah - con lui aprì le sue porte nel cuore del moderno quartiere ebraico di Gerusalemme, a due passi da Jaffa Road. Un ministero fatto anche di uno sforzo culturale nell’aiutare la Chiesa tutta a ritrovare appieno la sua radice giudaica, anche attraverso la traduzione nell’ebraico moderno dei testi della liturgia o anche più semplicemente di libri che presentano la figura di Gesù a chi oggi non sa nulla su di lui. “Facendo questo - raccontava in quegli anni – viviamo la stessa fatica di san Paolo, ci rendiamo conto di come certe parole del Vangelo chiedano addirittura categorie nuove per essere tradotte in ebraico”.

Da Jaffa Road - negli anni in cui proprio lì avvenivano gli attentati più sanguinosi della Seconda intifada - ha vissuto anche il suo incontro con l’esplosione violenta del conflitto israelo-palestinese. Coltivando - insieme alla sua comunità - la vocazione a essere “custodi della libertà del Vangelo” anche dentro il conflitto, divenendo testimoni di pace e riconciliazione da una parte come dall’altra della barricata.

Nel 2004 arrivò l’elezione da parte dei suoi confratelli a Custode di Terra Santa, cioè il responsabile della storica provincia dei frati che sulle orme di san Francesco vivono il loro ministero oggi in Israele, Palestina, Siria, Libano, Giordania, Cipro ed Egitto. Custodi dei santuari nei luoghi della vita di Gesù, ma - ancora di più, come ha spiegato tante volte p. Pierbattista - delle “pietre vive”, le comunità cristiane locali, che spesso soffrono a causa del conflitto ma sono anche i luoghi dove si può far risuonare di nuovo realmente la parola di Gesù nella vita quotidiana della Terra Santa. Come Custode ha accolto a Gerusalemme papa Benedetto XVI nel suo viaggio del 2009 e papa Francesco in quello del 2014; ma ha visto anche cambiare il volto dei pellegrini cattolici che giungono in Terra Santa, che non sono più solo europei o nord-americani ma sempre di più anche africani, latino-americani, asiatici.

Quando nel 2016 - finito il suo mandato alla guida della provincia francescana di Terra Santa - si apprestava a tornare in Italia, con sua grande sorpresa si ritrovò richiamato proprio da papa Francesco ad assumere come amministratore apostolico la guida del patriarcato latino di Gerusalemme in un momento delicato, per una difficile situazione finanziaria. La sua risposta è stata quella di invitare a vivere questa crisi come un'opportunità: “Siamo dove siamo - disse - smettiamo di piangerci addosso e cerchiamo di capire che cosa il Signore ci chiede in questa circostanza. Non si tratta semplicemente di trovare finanziamenti per fare fronte ad alcuni debiti, ma di puntare su ciò che è essenziale: il servizio alla nostra gente”. Ripartì - come sempre - dall’ascolto della Parola di Dio: ogni domenica da anni pubblica il suo commento al Vangelo sul sito del patriarcato. E grazie alla fiducia ricostruita, papa Francesco lo ha poi nominato pienamente come nuovo patriarca nel 2020. Scelta nientre affatto scontata e che - dopo due guide provenienti dalla comunità araba - dice l’affetto della comunità locale nei suoi confronti. La stessa comunità che - insieme a lui - ha gioito per la storica nomina cardinalizia, avvenuta nel concistoro del settembre 2023.

Pochi giorni dopo, il Medio Oriente sarebbe precipitato di nuovo nel baratro, con gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e la durissima risposta di Israele a Gaza. In questi lunghi due anni su AsiaNews abbiamo raccontato il suo magistero sulla pace, la vicinanza costante e concreta alla piccola comunità della parrocchia della Sacra Famiglia nella Striscia che ha anche fisicamente visitato l'anno scorso in uno dei momenti più duri della guerra, ma anche il suo costante appello a guardare con gli occhi della fede quanto sta accadendo. Nella notte di Natale 2023 osservò amaramente come oggi sembri applicarsi all’intero popolo palestinese il rifiuto incontrato da Maria a Giuseppe per cui “non c’era posto” a Betlemme. Pochi giorni fa, a Pasqua, osservava ancora che “il mondo di oggi ha un'idea di pace povera, persino offensiva: troppi annunci sono stati traditi e offesi. Alle logiche umane di potere, alle dinamiche di violenza e di guerra, la nostra Chiesa opponga dinamiche di vita, di giustizia e di perdono”.

Il card. Pizzaballa, però, è una figura che non si è mai lasciato schiacciare nello stereotipo del pastore dalla terra del conflitto. “Voi giornalisti mi chiedete sempre di israeliani e palestinesi, occupazione, il muro... - disse per esempio qualche anno fa in un’intervista -. Ma la domanda vera da porci oggi è: perché come Chiesa ci interessa ancora Gerusalemme? A me pare che stiamo scontando la mancanza di una riflessione seria di questo tipo. La Chiesa deve ritrovare Gerusalemme come topos, come luogo non solo dello spirito. In questa fase di ripensamento sul proprio essere comunità, sul tipo di testimonianza che dobbiamo offrire, dovremmo tutti tornare a Gerusalemme. Che cosa significa per i cristiani? In che senso diciamo che è la Chiesa madre? Perché continuiamo a venire qui? Ci sarà un motivo al di là di un certo devozionismo un po’ sofisticato”.

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