11/03/2021, 09.01
GIAPPONE
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Arcivescovo di Tokyo: Dopo Fukushima, ‘una nuova creazione’ e rapporti umani

di Mons. Isao Kikuchi

A 10 anni dal terremoto e tsunami che hanno devastato la costa del Pacifico del nord Giappone, rimane la domanda di senso e di comunità della gente tornata e di quella ferita dal disastro. Si ricostruiscono case, strade, ambienti, ma la gente è sola e non tutti sono tornati. Mons. Kikuchi sottolinea l’impegno e la fraternità delle comunità cristiane, luogo di speranza.

Tokyo (AsiaNews) – “La pandemia ci ha insegnato che i rapporti umani sono essenziali per la nostra sopravvivenza” e questi rapporti umani, offerti nell’amicizia dei cristiani, costituiscono la vera novità fra i palazzi, le case e le strade ricostruite. Mons. Tarcisio Isao Kikuchi, arcivescovo di Tokyo, racconta così l’impegno della Chiesa per non lasciare isolata e abbandonata la popolazione dell’area di Fukushima, colpita 10 anni fa da uno tsunami e dal conseguente incidente alla locale centrale nucleare. L’11 marzo del 2011 il più potente terremoto mai registrato in Giappone ha devastato la costa nord-orientale del Paese. Il maremoto provocato dal sisma di magnitudo 9.0 ha ucciso 18mila persone e distrutto città intere. La catastrofe ha obbligato mezzo milione di residenti ad abbandonare le proprie case. Le acque hanno invaso l’impianto nucleare di Fukushima, danneggiando alcuni reattori poi andati in fusione (meltdown). Per evitare il contatto con le radiazioni mortali, le autorità hanno creato una “zona di esclusione”, evacuando 150mila persone. La zona off-limit è ancora in piedi e molti dei residenti non sono tornati nelle loro abitazioni. Stime ufficiali dicono che ci vorranno 40 anni per la ricostruzione e la bonifica del territorio, al costo di migliaia di miliardi di yen. Il governo Suga ha il problema di come smaltire un milione di tonnellate di acque contaminate perché usate per raffreddare i reattori atomici danneggiati. Associazioni ambientaliste e la Conferenza episcopale nipponica criticano la proposta di scaricarle in mare. Il disastro di Fukushima è classificato al 7° livello di gravità dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica, il più alto mai osservato insieme a quello di Chernobyl (Unione Sovietica) del 1986. Scienziati nipponici e stranieri sostengono però che i rischi per le radiazioni sono ora limitati. All’interno e oltre tutti questi problemi, vi è comunque il bisogno di senso e di comunità che la gente ferita dal disastro porta con sé. Ecco quanto ci ha detto mons. Kikuchi (traduzione a cura di AsiaNews).

 

 

Sono passati 10 anni da quando un enorme terremoto e tsunami hanno colpito la zona est del Giappone, soprattutto la costa del Pacifico, nell’area di Tohoku. In questi 10 anni, sono morte circa 20mila persone, comprese 4mila morti per cause legate al disastro; più di 2500 sono dispersi e più di 40mila sono quelle che non sono ancora tornate e rimangono sfollate.

In questi 10 anni, il governo ha speso una considerevole parte del bilancio nazionale per ricostruire le infrastrutture nell’area colpita dal disastro, come una nuova rete di autostrade e nuovi edifici pubblici.

Tante Ong si sono stabilite nella zona per sostenere la popolazione locale a guarire dal disastro. E fra esse vi sono anche le nostre Ong cattoliche, assistite dalla Caritas Giappone.

Offrire nuove infrastrutture è certo buono per la popolazione, ma non sufficiente. La presente pandemia che sta colpendo la nostra vita in modo molto serio ci insegna che per sopravvivere, l’elemento essenziale è la relazione umana. A causa delle restrizioni anti-Covid, siamo scoraggiati a incontrare gli altri e a chiacchierare o pregare insieme. Nella società in cui la gente invecchia con pochissimi figli, gli anziani vivono facilmente da isolati e questo isolamento colpisce ancora di più la gente che vive nella zona del disastro. In molte aree, le comunità locali sono scomparse e la maggioranza della gente è lasciata sola in case e appartamenti edificati di fresco.

Le Ong della Chiesa stanno cercando di mantenere questa relazione umana in mezzo alla comunità locale, evitando che la gente, specie gli anziani, siano isolati. Le maggiori attività sono le visite in casa, il condividere spazi perché le persone possano incontrarsi e colloquiare fra loro.

L’esperienza di questi 10 anni ha fatto comprendere che la relazione umana è essenziale alla vita e diverse persone sono ora impegnate a ricostruire la comunità e il sostegno reciproco in tutto il Giappone.

Verso l’energia nucleare vi sono ancora sentimenti contrastanti. La Conferenza dei vescovi spinge per l’abolizione degli impianti di energia nucleare e per una conversione ecologica. Ad ogni modo, questa voce è ancora quella di una minoranza nella società giapponese, anche se nessuno sa quanti anni ancora ci vorranno per bonificare l’area degli impianti nucleari di Fukushima.

Purtroppo, lo scorrere di 10 anni ha fatto perdere alla maggioranza della gente il senso di crisi che era vivo 10 anni fa.

Al momento la diocesi di Sendai è senza pastore. Ma i 10 anni di esperienza dopo il disastro, ha reso la comunità diocesana forte nella fede. Molte delle sue comunità parrocchiali sono piccole e formate da persone anziane. Attraverso le attività dei 10 anni scorsi, le parrocchie hanno compreso l’importanza di un’azione comune nella carità come parte essenziale della vita della Chiesa, insieme alla preghiera e all’evangelizzazione.

Va detto che la Chiesa cattolica era una presenza radicata anche prima del disastro. Dopo il disastro, noi desideriamo creare speranza non solo oggi con gli sforzi degli aiuti di emergenza, ma anche in futuro con il lavoro comune insieme alla popolazione di Tohoku. Lo slogan della diocesi di Sendai è “Una nuova creazione”: in questo modo la diocesi continuerà a procedere per portare speranza alla popolazione dell’area, senza un ritorno nostalgico al passato.

Le attività di soccorso della Chiesa giapponese, organizzate dalla Conferenza episcopale, termineranno il 31 marzo. Ma dopo 10 anni di attività di aiuto, la Chiesa esiste lì a Tohoku con uno spirito ancora più forte e attraverso queste solide comunità, continuerà a testimoniare la Carità.

Nel novembre 2019, papa Francesco a Tokyo ha detto: “Senza risorse di base: cibo, vestiario e riparo, non è possibile condurre una vita dignitosa e avere il minimo necessario per poter ottenere una ricostruzione, che a sua volta richiede di sperimentare la solidarietà e il sostegno di una comunità. Nessuno si “ricostruisce” da solo; nessuno può ricominciare da solo. È essenziale trovare una mano amica, una mano fraterna, in grado di aiutare a risollevare non solo la città, ma anche lo sguardo e la speranza”.

Per questo, noi vogliamo continuare ad essere fratelli, sorelle, amici per “risollevare non solo la città, ma anche lo sguardo e la speranza”.

Caritas Giappone continuerà il suo sostegno nell’area, anche dopo che le attività organizzate dai vescovi giungono a conclusione. Nella zona vi sono persone in profondo bisogno, ed è lì presente anche una Chiesa piena di entusiasmo e amore.

 

Arcivescovo Isao Kikuchi, SVD

11 Marzo 2021

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