19/11/2018, 11.07
LIBANO-ALGERIA-VATICANO
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I martiri algerini da beatificare e i martiri libanesi della guerra civile

di Fady Noun

I monaci di Tibhirine, mons. Pierre Claverie e gli altri laici e religiosi che saranno beatificati l’8 dicembre a Orano (Algeria), possono aiutare i libanesi a riscoprire la missione cristiana e verso la propria terra, amata anche dai musulmani. Per costruire “una nazione, una cultura nazionale” islamo-cristiana.

Beirut (AsiaNews) – A poche settimane dalla beatificazione di 19 martiri della guerra civile algerina degli anni ’90, l’arcivescovo di Algeri, mons. Paul Desfarges, ha diffuso una lettera pastorale sul senso di questo gesto, che vuole essere un segno per la Chiesa e per tutto il popolo algerino.

Come libanesi, dovremmo essere sensibili più di altri a questa lettera, noi che ci lecchiamo sempre le ferite della nostra discordia civile, una discordia che ha preso spesso una coloritura interreligiosa.

Quei 19 martiri, spiega l’arcivescovo di Algeri, hanno dato la loro vita “a Dio e al popolo [algerino] a cui l’amore li aveva legati… Essi hanno sigillato con il loro sangue versato la fraternità nel nostro popolo. La loro vita è stata recisa insieme a quella di migliaia di loro fratelli e sorelle algerini, anche loro perdendo la vita e scegliendo di rimanere fedeli alla loro fede in Dio, alla loro coscienza e per amore del loro Paese”.

L’arcivescovo ricorda che durante quel terribile decennio, “114 imam sono morti perché essi hanno rifiutato di giustificare la violenza”.

Mons. Desfarge invita anche a non dimenticare i 12 operai croati che sono stati sgozzati perché cristiani, in un massacro nel dicembre 2013, ricordando pure altri tre operai cristiani, che stavano in una sala vicina al cantiere dei martiri, salvati da uno dei loro colleghi musulmani, che ha fatto credere ai terroristi che essi erano dei loro.

Mons. Desfarge cita un versetto coranico che i sette monaci trappisti di Tibhirine (v. foto 1), rapiti e sequestrati da islamisti nel marzo 1996 e uccisi alcune settimane più tardi in circostanze mai chiarite, avevano citato durante un incontro nel 1994: “E colui che salva un solo uomo è come se egli avesse salvato tutti gli uomini” (Corano 5,23).

Quei monaci, che non erano algerini, avevano preso il rischio di restare nel loro monastero, sapendo che si esponevano alla morte, per manifestare la loro solidarietà spirituale con il popolo algerino.

Nel numero dei religiosi che saranno beatificati figura anche il vescovo di Orano, Pierre Claverie, morto in compagnia di un giovane algerino musulmano il primo agosto 1996.

Al teatro Momot di Beirut e in qualche scuola sta per essere recitata un’opera di teatro, “Pierre e Mohammed”, che racconta questo doppio martirio e il suo senso profondo. Entrambi avevano pensato in anticipo alla loro morte, entrambi l’avevano accettata nello spirito di amicizia e di solidarietà spirituale che li univa.

In questo modo, i musulmani saranno associati in pieno a questa giornata di beatificazione (l’8 dicembre), che comincerà con una cerimonia di accoglienza nella Grande moschea di Orano.

Tutto questo è certo una lezione per noi libanesi: anche per noi la guerra è stata costellata da sacrifici analoghi a quelli onorati dalla Chiesa di Algeria. I giovani forse ignorano la storia esemplare di Ghassibé Keyrouz (foto 2), ucciso a 22 anni, il 25 dicembre 1975, mentre tornava al suo villaggio natale di Nabha (Bekaa), per passarvi le vacanze natalizie con la sua famiglia. Alcuni giorni dopo la sua scomparsa e le prime informazioni sulla sua morte, nella sua camera al collegio Notre-Dame de Jamhour i suoi amici hanno trovato una lettera che egli aveva scritto prima di partire. Fra l’altro diceva: “Quando ho cominciato a scrivere questa lettera, ho sentito come se ci fosse un altro che parlasse al mio posto. Oggi, ognuno di noi, libanese o semplice residente, è in pericolo. E io sono uno di loro. Io mi vedo arrestato e ucciso sulla strada che porta a casa mia a Nabha, il mio villaggio. Se questa intuizione si concretizza, lascio queste poche parole alla mia famiglia, alle persone del mio villaggio, al mio Paese. Dal profondo del cuore, dico a mia madre e alle mie sorelle: non siate tristi o perlomeno non piangete troppo su di me… Domando una cosa: perdonate con tutto il cuore coloro che mi avranno ucciso. Domandate con me che il mio sangue, anche se sono peccatore, serva come riparazione per i crimini commessi in Libano, un sacrificio il cui sangue si mescola a quello di tutte le altre vittime, cadute da tutte le parti e da tutte le confessioni, così che la pace, l’amore e il perdono – che al presente mancano nel nostro Paese e nel mondo – possano ancora fiorire nei cuori… Pregate, pregate, pregate e amate i vostri nemici”[1].

È esemplare quanto fa la Chiesa di Algeria. Pur distinguendo i cristiani e i musulmani, essa li avvicina nello stesso amore di patria e nello stesso sacrificio destinato a consolidare i suoi sforzi di rinascita ed identità. La Chiesa maronita dovrebbe seguire il suo esempio, ed elevare alla gloria degli altari libanesi come Ghassibé Keyrouz, che hanno donato la loro vita al Libano, in una piena coscienza cristiana di amore verso Dio e verso il prossimo, e in una volontà irrevocabile di perdono.

Altre Chiese e ordini religiosi, come la Compagnia di Gesù, potrebbero seguire questo esempio, e con l’esemplare prudenza di cui dà prova la Chiesa d’Algeria, al di là di ogni spirito di rivincita, di ogni discorso di vittimizzazione e di piccole glorie campanilistiche, domandare che quei loro mem bri che hanno donato la vita al Libano e a Dio, indistintamente, vengano beatificati, o – se la procedura è incerta, o troppo costosa, o troppo lunga – siano almeno indicati come esempio. Il sacerdote gesuita olandese, Nicolas Kluiters, assassinato nella Bekaa nel 1985, di cui Carole Dagher ha scritto la biografia, è uno dei primi esempi. Dovrebbero impegnarsi anche autori e scuole. Solo così si costruisce una nazione, una cultura nazionale.

La legge sulle vittime scomparse o rapite votata di recente, è tutta un’altra cosa. Occorre cercare la verità, ma occorre pure richiamare l’esigenza di giustizia e il dovere della memoria. E questa è tutt’altro affare.

È anche il caso della festa nazionale islamo-cristiana dell’Annunciazione, dato che essa separa mentre unisce: essa unisce musulmani e cristiani sull’Annuncio dell’angelo per la nascita di Gesù; ma divide sull’identità di questo bambino annunciato: uomo per gli uni, Dio per gli altri. E questo fa la differenza.

P. Dany Younès, provinciale dei gesuiti, a proposito di p. Paolo Dall’Oglio [e del suo dialogo con l’islam] parlava di ponte al di sopra dell’abisso. Questo ponte è condannato a rimanere incompiuto, dato che non ci può essere fede senza dottrina, se non nell’unione mistica che gli avventurieri del dialogo, come p. Dall’Oglio, “hanno salutato da lontano”, come una terra promessa.

Per fortuna, le cose sono molto più semplici nel caso dei martiri di Algeria e nel caso preciso di Ghassibé Keyrouz. In questi, il lavoro di avvicinamento è praticamente fatto. Vi è solo da cogliere il frutto in modo intelligente. Nella prossima commemorazione del 25 marzo in Libano, offriamo quest’opera teatrale e cerchiamo nella storia della guerra o altrove, tutti coloro che somigliano a loro.

 


[1] Per il testamento completo di Ghassibé Keyrouz, è sufficiente cercare il suo nome su internet.

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